Noi occidentali dobbiamo prendere dall’Oriente tutte le idee
che ci sembrano più valide, ma senza rinunciare mai alla nostra razionalità e
al nostro senso critico. Non credere per fede, ma credere perché un’idea ci
sembra vera.
Diceva il Buddha: “Come un orafo saggia l’oro, strofinandolo,
tagliandolo e bruciandolo, così dovete esaminare le mie parole, non
accettandole solo per fede verso di me”.
Non fede, ma verifica sperimentale e personale.
Quando diciamo per esempio che le cose non hanno un sé permanente,
facciamo un’affermazione astratta che sembra essere dogmatica, dal momento che
è impossibile fare un’esperienza della vacuità.
Però possiamo fare esperienza della mutevolezza, del
cambiamento, del dinamismo e della scarsa consistenza degli enti: l’io, l’uomo,
gli esseri viventi, il mondo, l’universo…
Ora, se tutto ciò fosse immutabile e sempre uguale a se
stesso, non potrebbe cambiare. Avremmo a che fare con monadi eterne,
immodificabili e incomunicabili.
In altri termini, se penso al mio io, non lo vedo vuoto. Ma
vedo che cambia nel tempo. Ciò che sentivo e provavo a 10 o 20 anni non è lo
stesso di ciò che provo a 50 o 60 anni.
Tutto cambia – e anch’io.
Tutto si disgrega – e anch’io.
Ma il cambiamento è legato ad una certa dose di vacuità.
Il mio “io” non è totalmente se stesso, per il semplice
fatto che cambia e si evolve. Il mio “io” non è un blocco immodificabile,
perché contiene in sé una vacuità che gli permette di trasformarsi e cambiare.
Il mio “io” non ha limiti definiti, ma può espandersi o contrarsi. Il mio “io”
contiene altri io, tanti collegamenti che lo rendono vitale.
La vacuità non va intesa come “assenza di”, ma come
possibilità di cambiamento.
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