giovedì 5 luglio 2018

La sfida del buddhismo


La più grande sfida alle religioni teiste (ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, ecc.) viene dal buddhismo. Mentre infatti tutte le religioni teiste seguono all’ingrosso uno stesso schema – c’è il Dio creatore, c’è un anima da lui creata, c’è il profeta o il salvatore inviato da Dio, c’è il libro sacro, c’è una Chiesa o religione rivelata, c’è la promessa di un paradiso o di un inferno, ecc. –, il buddhismo non solo non crede in un Dio, ma sostiene anche che non esiste un’anima eterna; anzi, afferma che proprio queste credenze sono alla base del nostro stato di schiavitù, perché ci legano a un attaccamento egoico (al proprio ego) che non ci permette una vera liberazione. Gli uomini continuano a nascere, a riprodursi, a morire e a soffrire perché sono abbagliati da una forma di ignoranza che non consente loro di vedere quanto la vita sia sostanziata di dolore. Se lo vedessero, se se ne rendessero conto, cesserebbero di desiderare di esistere o di conquistare un buon posto su questa stessa terra, in una prossima rinascita o in qualche paradiso ultraterreno. Non c’è infatti nessun livello dell’essere che sia libero dalla sofferenza. È proprio la dimensione dell’essere che va eliminata. Il nirvana buddhista non è uno stato migliore dell’attuale, ma una forma di estinzione.
Subito il teista accusa questa religione di essere nichilista. Come si fa a rinunciare all’idea che esista un’essenza immortale che ci sopravvive? Come si fa ad abbandonare la speranza in una rinascita migliore, in una resurrezione o in paradiso? Non si butta il via con l’acqua sporca (la sofferenza) anche il bambino (l’anima)? Qualcuno potrebbe inoltre pensare: perché darsi tanto da fare per progredire se il sé è destinato a sparire?
La risposta del buddhismo (e delle religioni che credono nella reincarnazione) è che non si può sfuggire alla legge del karma e quindi alle conseguenze delle proprie azioni. Non serve morire e non servirebbe nemmeno suicidarsi. Quel sé che non è eterno è tuttavia ben radicato – nel desiderio, nell’attaccamento, nell’illusione e alla fine nella sofferenza. Paradossalmente, non è affatto facile liberarsene; esso continuerà a esistere da una vita all’altra e dovrà scontare tutto il karma accumulato. Se anche ci fosse un paradiso, non sarebbe privo di sofferenza. E anche se ci fossero gli dei, anche loro finirebbero per soffrire e morire.
Il buddhismo non spiega da dove nasca una simile legge perfettamente retributiva, che, tutto sommato, potrebbe essere assimilata ad una specie di Volontà divina...ma completamente impersonale. E non spiega neppure chi abbia messo in moto questo piano di realtà, con tutti i suoi esseri. Non nega che esistano stati migliori, paradisi e dèi. Ma afferma che niente di tutto questo è eterno e che nessun essere è esente dalla sofferenza. Anzi, la condizione umana è privilegiata, perché permette di incamminarsi sulla via della liberazione.
Mentre l’obiettivo del teista è raggiungere uno stato paradisiaco, il buddhista sostiene che nemmeno questo stato può essere definitivo e che la meta ultima è liberarsi di ogni sete di essere (o di non essere).
Come fare? La via non può che essere quella della consapevolezza e del distacco. Con la consapevolezza ci si rende conto dello stato di sofferenza di cui siamo vittime e con il distacco (non-attaccamento) ci si libera delle illusioni e dei condizionamenti. Ma la strada è lunga e non rischiamo affatto di scomparire nel nulla subito dopo la morte; ci vorranno molte vite, molte sofferenze e molta meditazione prima che in noi si faccia strada un barlume di luce. Nel frattempo continueremo a credere che si possa vivere senza soffrire e sogneremo di stati paradisiaci e divini in cui, non si sa come, potremo vivere in eterna letizia.
Solo il buddhista non si fa illusioni e sa che l’ultima rinuncia sarà proprio quella dell’attaccamento al proprio ego. Chi avrà ragione? Difficile dirlo, ma resta il fatto che la concezione buddhista è la sfida più radicale alle nostre credenze e fa apparire le varie teologie giochi di bambini.

2 commenti:

  1. Signor Claudio, questo suo scritto lo trovo molto interessante, ed al tempo stesso quasi disarmante, poiché mi fa sorgere l'idea in fondo di quanto possa essere bella la vita quanto inutile. In fondo quale e' l'utilita' del vivere, a cosa serve la vita? Mi piacerebbe che lei voglia rispondere a questa domanda, che nel mio caso mi affligge da molto tempo, grazie.

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    1. La vita non ha nessun senso "logico". Non è né buona né cattiva, né utile né inutile, né bella né brutta. Ma tutte queste cose insieme. Potrebbe sparire in un attimo e non succederebbe nulla. Potrebbe anche essere considerata un "vizio assurdo" o un gioco divino. Non ha infatti un fine prestabilito, se non quello di allontanarsi e ricongiungersi con la sua stessa Fonte. C'è niente di più futile?

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