Qualcuno
pensa ancora che il male nasca dalla perdita della fede in Dio. Ma vediamo bene
che si uccide anche in nome di Dio. Lo si è sempre fatto, in tutte le religioni
e in tutti i tempi.
Non è
dunque il fatto di non credere o di credere che può fare la differenza. Semmai,
l’unica differenza nasce dal non accontentarsi di comandamenti stereotipati e dall’attivazione
del senso critico e della consapevolezza.
Ma qui
nascono varie obiezioni. Innanzitutto l’esempio di Dio – colui che uccide tutto
e tutti – non è confortante. Secondariamente, qualche volta è necessario
uccidere – per esempio per difesa, per mangiare e per eliminare nascituri
malformati. In terzo luogo, il male e la morte non sono eliminabili.
Lo rilevava
già il taoismo antico, quando diceva che bene e male sono interconnessi, e lo
confermava anche san Paolo, quando osservava che, non appena credeva di fare il
bene, il male era alla sua porta.
Il fatto
è che non si può fare del bene senza anche far del male, più o meno come
succede come quando un chirurgo, per togliere un tumore, deve aprire e tagliare
la carne viva.
In
fondo, quando un terrorista islamico uccide gli “infedeli”, lo fa credendo di
far del bene e di meritarsi perfino il paradiso. Come dimostragli che si sta
sbagliando?
Dicendogli
che Dio difende la vita ad ogni costo? Non pare proprio.
Se si
crede nella vita eterna, come pensare che la morte sia un gran male? Non ci fu un famoso arcivescovo che ordinò di uccidere un’intera popolazione fra cui si annidavano
degli eretici e che, a chi gli domandava: “Ma come faremo a distinguere gli uni
dagli altri?” rispose: “Non vi preoccupate, uccideteli tutti… Do saprà
distinguere i suoi!”?.
Certo,
un uomo di grande fede, come i terroristi odierni.
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