Tutte le religioni hanno alla loro base l’idea che le anime subiscano
dopo la morte una sorta di giudizio che ne stabilisca il destino successivo: è
una questione di giustizia. All’uomo sembra intollerabile che qualcuno o
qualcosa non ponga riparo alle evidenti ingiustizie della vita. Nel
cristianesimo troviamo l’idea del paradiso, dell’inferno e del purgatorio, “luoghi”
o stati in cui ci indirizza un Dio-giudice. Anche nel buddhismo tibetano
troviamo la convinzione di un giudizio post
mortem. Ma non c’è la concezione del Dio giudice; si crede piuttosto che
dopo la morte appaiano sia figure luminose e benefiche sia figure minacciose e
malefiche: le divinità irate. Di fronte a queste apparizioni, l’uomo dovrà
decidere chi seguire. E lo farà in base alle proprie predisposizioni. Comunque,
si tratta non di entità reali, ma di proiezioni della propria mente.
Più in generale, nel buddhismo (e nelle religioni indiane) si pensa ad
un meccanismo inesorabile, una legge fondamentale (il dharma) che non è
amministrata da un Dio, ma che funziona in modo tale che chi ha accumulato
meriti nella vita precedente avrà una rinascita migliore (in questo mondo o in
altre dimensioni), mentre chi ha commesso misfatti finirà in una condizione
peggiore. Il karma accumulato, insomma, determinerà la qualità della successiva
reincarnazione.
Questo spiegherebbe il perché delle ingiustizie di partenza, e del male
“casuale”, che chi crede in Dio non sa come giustificare.
Resta il fatto che tutti vogliono che sia fatta giustizia. Questa sembra
essere un’esigenza dell’anima umana.
Chi invece non crede che i fatti siano collegati, chi crede che tutto sia
casuale, si trova in un mondo incomprensibile, privo di senso. E allora ha veramente bisogno di un Dio che copra arbitrariamente i legami mancanti.
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