Quando il Buddha, davanti
all’assemblea dei monaci (che erano in attesa di una spiegazione verbale della
sua dottrina) alzò in una mano un fiore e sorrise, solo un discepolo capì il
messaggio e sorrise a sua volta: Mahakashyapa.
Attenzione, Mahakashyapa non
aveva “compreso” (intellettualmente) la dottrina del Buddha; non disse: “Ho
capito”. Non diede un significato al gesto del maestro e al suo silenzio,
perché in tal caso lo avrebbe de-finito, lo avrebbe racchiuso e limitato in
concetti. No, si mise a sua volta a fare zazen in silenzio, ossia assunse egli
stesso l’atteggiamento di meditazione, lo spirito del Buddha.
Questo è l’unico rapporto possibile,
in meditazione, tra maestro e allievo. Non vengono trovati dei significati,
degli insegnamenti dottrinari, ma si induce uno stato d’animo. Quasi per
osmosi. Così come si induce uno stato d’animo di fiducia o di paura.
E non c’è neppure bisogno di
uno maestro in carne ed ossa. Perché il maestro è già dentro di noi, se
facciamo tacere le pretese “definitorie” della mente.
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