Qualsiasi domanda della
mente può essere un koan. Ed è questo modo di impostare la ricerca che
differenzia la meditazione dalla filosofia. Per esempio, alla domanda: “Che
cos’è la vita?” non cerchiamo di rispondere con una definizione, ma cerchiamo
di “sentire” che cosa stiamo sperimentando ora, in questo attimo. Questa è la
risposta, non un concetto.
Prendiamo la domanda: “Che
cos’è l’essere?” – l’antico interrogativo della filosofia. Non dobbiamo
rispondere con una definizione, che resterà sempre nell’ambito dei concetti
mentali, ma con la nostra esperienza attuale. Che cosa siamo in questo momento? Che cosa sentiamo, con tutti i nostri
sentimenti, con tutte le nostre percezioni, con tutto ciò che siamo?
Siamo come il pesce che vive
nell’acqua e che si domanda che cosa sia l’acqua, andando a cercare un’idea della
mente, anziché la propria esperienza.
Certo, la definizione è
importante: è scienza, è filosofia, è una presa di coscienza. Ma attenzione a
non smarrirci nei concetti, perdendo di vista la realtà sostanziale – che non è
un concetto.
Nessuno è più lontano della
realtà del filosofo impegnato a pensare.
In meditazione cerchiamo di
rispondere a simili domande (per esempio: “Chi sono io?”), non ricorrendo a
definizioni, ma riportandoci all’esperienza del momento. L’esperienza del
momento è qualcosa di reale e tangibile, anche se contingente e variabile. Ecco
perché dobbiamo compiere il passo successivo, e cercare di cogliere la natura
fondamentale dell’io o dell’essere. Questo è il grande compito – un compito non
facile, dato che, per rispondere, siamo abituati a dividerci in due: il
soggetto che conosce e l’oggetto che è conosciuto. Ma l’oggetto conosciuto non
è più il soggetto.
È dunque necessario
liberarsi del dualismo mentale (ed emotivo) e fare il più possibile il vuoto
dei pensieri.
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