Parlare della morte di Dio è
un paradosso, perché ciò che è eterno non può morire – e neppure nascere. È lì
da sempre e sempre ci sarà. Altra cosa, poi, è dire che Dio è morto nell’anima
umana – ma questo è un altro discorso, che non riguarda propriamente la realtà
di Dio.
L’altra interpretazione è
che Dio, per lasciar spazio al mondo, deve in un certo senso sparire, farsi da
parte, dissolversi e quindi suicidarsi. Ma, più che sparire, subisce a sua
volta una trasformazione: da Dio esterno diventa un Dio disseminato, presente
dappertutto.
È il mito cristiano del Dio
che muore e rinasce? Un’interpretazione letterale? In ogni caso, una metafora, una
finzione, un paradosso. Si tratta di un antico mito agricolo: il seme deve
essere seppellito per generare nuova vita. Non a caso, questo concetto è citato
anche nei Vangeli.
Ma la pseudo-morte di Dio
significa anche un’altra cosa: che finché si adora un Dio esterno, non si è in
grado di crescere autonomamente. Bisogna insomma che Dio, per far crescere il
cosmo, si suicidi o che venga ucciso dentro l’anima di chi lo pensa.
In Cina, il maestro zen
Lin-chi diceva: “Se incontri sulla tua strada il Buddha, uccidilo!” E intendeva
dire che non bisogna attaccarsi a idee esteriori del Divino.
Ma l’Occidente cristiano,
meno scaltrito, ha interpretato il mito della morte di Dio alla lettera. Con il risultato che è stato costretto a farlo risorgere e a non cercarlo mai dentro di sé.
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