Ci viene consegnata dalla
tradizione l’immagine del santo come essere sofferente, piagato, malato,
martirizzato… quasi che tutto questo rappresentasse una particolare benedizione
di Dio, che così vuole mettere alla prova e purificare l’individuo prescelto.
(Speriamo di non
essere né benedetti né prescelti in questo modo da Dio. Se Dio volesse far
soffrire chi ama, sarebbe un sadico.)
Poi ci viene spiegato il
valore redentore della sofferenza.
Quello che non ci viene mai
illustrato è la capacità redentrice della felicità. Quel tipo, con le mani e il
petto piagati, coperto di stracci, che soffre ad ogni respiro, sarà anche un
santo, ma non è certo un saggio.
Il saggio cerca di vivere in
armonia e a lungo. Non va certo a cercare la sofferenza come segno
dell’attenzione di Dio. Rispetta la natura, fuori di sé e la propria. Considera
la malattia o l’incidente più come una sconfitta o una sconfitta che come un
segno del favore divino. Chi vive a lungo, sano ed equilibrato, quello è
favorito da Dio. Non sovvertiamo la scala dei valori naturali per giustificare
i nostri squilibri o le nostre disfatte.
Dio si rivela a chi soffre?
Può darsi… perché chi soffre
è costretto a ripensarsi e a ripensare il mondo. Ma si rivela di più a chi è
sereno. E non è necessario aspettare la sofferenza per ripensare se stessi e il
mondo: basta un po’ di tranquilla meditazione quotidiana. Capisco di più il
divino quando sto bene che quando soffro. Quando sono al meglio delle mie
energie, mi sento in armonia con il tutto. Quando sono malato, sento di aver
perso il contatto con il divino.
Nella più atroce delle
sofferenze non c’è più nessun Dio, ma solo un urlo sconsolato.
Qualcuno ha detto che la gioia è il segreto del mondo. E ho l'impressione che sia vero. Ma com'è allora che l'abbiamo persa così in fretta?
RispondiEliminaDa bambini, più o meno, siamo stati tutti felici. Poi, crescendo, diventando più coscienti del nostro aspetto fisico, dei nostri limiti, delle ingiustizie del mondo, abbiamo assistito parallelamente al dileguarsi della nostra gioia. Lo scotto del diventare grandi è dunque la perdita della gioia? Sembrerebbe di sì, come se ad una consapevolezza via via maggiore corrispondesse una gioia via via minore. Ora, la consapevolezza è una risorsa certamente preziosissima, fondamentale, per una dignità che possa dirsi veramente umana, ma bisogna stare attenti a non trasformarla nell'altra faccia della medaglia (che esiste sempre). Voglio dire, se la gioia è, è a prescindere. Quando siamo gioisi, siamo tutti (come) dei bambini., senza essere consapevoli di esserlo. Se lo diventiamo, la gioia, forse, è in pericolo.
Il segreto sta nell'essere consapevoli senza diventare ossessivi, mantenendo l'equilibrio del saggio. Certo è difficile: è un esercizio di equilibrismo.
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