Ogni domanda deve avere la sua risposta:
questo è il criterio cui siamo abituati. Anche le nostre conversazioni seguono
uno schema del genere: non ci dev’essere un vuoto. Tu parli, io interloquisco;
tu fai un’affermazione, io contraddico. Se ti incontro devo dirti “ciao!”, se
ti lascio devo dirti “arrivederci!”, se siamo in due dobbiamo parlarci…non
possiamo lasciare spazi vuoti.
Queste sono le convenzioni umane. Ma sappiamo
anche che ci sono domande che non hanno risposte e che ci sono rapporti che
avvengono al di là delle parole e delle regole dell’educazione o della
sintassi.
Esiste dunque il silenzio – un silenzio che è
gravido di incertezze, al di là delle regole e delle convenzioni, al di là del
senso e del non-senso.
Non è detto che il senso debba ridursi ad un
significato circoscritto. Ed è proprio lì che traspare l’oltre.
“Potrò mai incontrare qualcuno con cui
comunicare senza parole?” si domandava Chuang-tzu.
In realtà succede spesso. Si può comunicare
anche in silenzio.
Ma si può parlare del silenzio?
È quello che sto facendo adesso. Lo evoco. Ma non so che cosa percepisca
chi mi legge. Percepisce il silenzio o si limita a pensare, cioè a rispondere e
a conversare mentalmente?
Esistono tante forme di silenzio, e quasi
tutte vengono annullate dal rumore, esteriore e metale.
Ma c’è un silenzio che può essere percepito
anche in mezzo alle peggiori forme di rumore, esteriore e mentale.
Si tratta appunto del silenzio interiore,
oltre i suoni e le chiacchiere esteriori e mentali.
Questo è il campo della meditazione.
Quando trovate questo silenzio, siete in
meditazione.
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