Vito Mancuso ricorda su Repubblica che il verbo pregare viene dal
latino precari, da cui anche
l’aggettivo “precario”. Già partiamo male: in effetti chi prega si sente
precario e cerca qualcosa cui aggrapparsi o, magari, il senso della vita. Chi
prega un “Dio” in cui crede o vuole credere è certo uno che sta male e cerca
aiuto o luce.
Ma, poiché siamo tutti precari in questo mondo (e anche il mondo),
non è detto che preghino soltanto i credenti. A dirla tutta, prega non solo colui
che si rivolge a un Dio (qualunque Dio), ma chiunque s’interroghi sul senso
della vita, perché cerca una spiegazione, una logica, un’origine, un senso. “Pregare”
diceva Wittgenstein “è pensare al senso della vita.”
Insomma i filosofi o gli agnostici sarebbero più religiosi dei
bigotti che pregano meccanicamente.
Più in generale, dunque, qualunque interrogante, qualunque
ricercatore, anche l’ateo, è uno che prega. Inoltre, il verbo pensare viene a
sua volta da pesare. Chi pondera,
pesa.
In conclusione, tutti pregano, tutti pesano, tutti si sentono
precari, e chi non ha verità preconcette ma
cerca prega ancora più seriamente di chi corre il rischio di rivolgersi a
un idolo della propria mente.
Contrariamente a quanto si crede, cercare e interrogarsi sono la
preghiera più autentica. E il punto di partenza non può che essere il proprio
essere… precari.
Perché siamo qui e perché dobbiamo sparire? E che cosa significa
sparire? È la fine di tutto o l’inizio di tutto – quell’inizio dell’essere che
si era incagliato in un esserci, in un corpo, in un ego, in una coscienza
ristretta?
Se questo non è pregare, che altro sarebbe pregare? Chiedere un
favore a un potente?
Ma questo potente chi è? Un Dio o ciò che precede anche tutti gli
Iddii?
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