Tra l' uno e il due ci sono infiniti numeri. Tra il bianco e il nero ci sono infinite gradazioni. Ma la nostra mente non è fatta per cogliere l' infinito. Coglie un certo numero, ma non il tutto. Questo il nostro dramma. Beato chi sa accontentarsi. Si, ma resterà sempre indigente.
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Queste parole hanno una densità filosofica notevole — sembrano un piccolo aforisma, o il frammento di un pensiero esistenzialista.
Esprimono una tensione antica: quella tra il desiderio umano di comprendere il tutto (l’infinito, la verità, la totalità) e i limiti della mente che può solo afferrare frammenti, sfumature finite.
👉 «Tra l’uno e il due ci sono infiniti numeri» — è un richiamo matematico al continuo, ma anche una metafora del reale: tra due opposti (bianco/nero, bene/male, vita/morte) ci sono infiniti passaggi che la mente umana semplifica per sopravvivere.
👉 «Beato chi sa accontentarsi» — introduce la saggezza del limite, quella capacità di fermarsi e accettare l’imperfezione.
👉 Ma la chiusa, «sì, ma resterà sempre indigente», ribalta tutto: la beatitudine dell’accontentarsi è anche povertà di spirito, mancanza di slancio, di desiderio.
È un pensiero che potrebbe ricordare Cioran, Pascal, o perfino Leopardi — il dramma di un essere che anela all’infinito ma è prigioniero del finito.
«Tra l’infinito che ci sfiora e il limite che ci contiene, viviamo inquieti: chi si accontenta si salva, ma non conosce mai la vertigine del tutto.»
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In fondo, tutta la nostra scienza e tutta la nostra tecnica tendono a questo: a renderci più facile soddisfare i nostri desideri, a soffrire il meno possibile, a colmare il divario tra la nostra volontà e gli obiettivi. Ma vi vuole ben altro. Il nostro desiderio è infinito, mentre la nostra volontà è finita.
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Bellissima chiusa — e molto densa.
Con quella frase finale “Il nostro desiderio è infinito, mentre la nostra volontà è finita” tocchi un tema centrale di tutta la filosofia moderna: il divario tra l’anelito umano illimitato e la condizione limitata dell’essere.
È un pensiero che riecheggia Schopenhauer (la volontà che ci spinge e ci condanna), Pascal (l’infinito che abita nel cuore dell’uomo), e anche Freud, che vede nel desiderio un motore inesauribile e mai pienamente soddisfatto.
Partiamo allora da una lettura filosofica del tuo passo, che ha una forza concettuale molto precisa.
Lo possiamo considerare una riflessione sul rapporto tra desiderio, volontà e tecnica, e sulle contraddizioni dell’uomo moderno.
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1. Il nucleo del pensiero: desiderio infinito, volontà finita
La frase finale, “Il nostro desiderio è infinito, mentre la nostra volontà è finita”, individua una tensione strutturale dell’essere umano:
Desideriamo senza misura — non solo oggetti, ma stati, possibilità, riconoscimento, senso.
Agiamo però entro limiti biologici, psicologici e temporali.
È questa sproporzione che genera sia il progresso (l’impulso a superare i limiti), sia la sofferenza (l’impossibilità di colmarli del tutto).
Da qui nasce il bisogno di una scienza e di una tecnica che fungano da mediatori fra ciò che vogliamo e ciò che possiamo.
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2. Schopenhauer: il desiderio come condanna
Arthur Schopenhauer è forse il primo a formulare chiaramente questa dinamica.
Per lui, la realtà ultima è “volontà di vivere”, un impulso cieco e incessante che si manifesta in ogni forma di vita.
Ogni desiderio, una volta soddisfatto, genera un nuovo desiderio — e così all’infinito.
La tecnica e il progresso non eliminano la sofferenza, ma la spostano: rendono più complesso il gioco dell’appagamento, non lo risolvono.
La sola via d’uscita, per Schopenhauer, è la sospensione della volontà (l’arte, la compassione, l’ascesi).
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3. Pascal: la sproporzione tra l’uomo e il mondo
Blaise Pascal aveva già colto, nel Seicento, la stessa inquietudine:
> “L’uomo supera infinitamente l’uomo.”
L’essere umano è un punto tra il nulla e l’infinito: finito nel corpo, infinito nel pensiero.
La scienza e la tecnica ampliano le sue possibilità, ma non colmano mai il vuoto esistenziale: possono tutto, tranne dare un senso.
In termini pascaliani, l’uomo non soffre per mancanza di mezzi, ma per mancanza di misura.
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4. Nietzsche: volontà di potenza e superamento
Friedrich Nietzsche, pur da un’altra prospettiva, riconosce la stessa tensione.
Per lui, l’essere umano è una forza che vuole accrescersi, e la scienza è una delle sue armi.
Ma quando la tecnica diventa solo uno strumento di comodità o sicurezza, allora tradisce la sua origine dionisiaca: invece di espandere la vita, la addomestica.
Nietzsche avrebbe detto che ci vuole “ben altro”: non il quieto appagamento dei desideri, ma il coraggio di trasformarli in creazione, in affermazione della vita.
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5. Heidegger: la tecnica come oblio dell’essere
Martin Heidegger riprende il tema nel Novecento: la tecnica moderna non è solo un insieme di strumenti, ma un modo di rapportarsi al mondo, una visione che riduce l’essere a “fondo disponibile” (Bestand).
Nel tentativo di rendere tutto calcolabile e dominabile, l’uomo dimentica il senso originario del suo stare al mondo.
Il desiderio infinito — trasformato in volontà di controllo totale — si ritorce su di lui come angoscia e smarrimento.
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6. Conclusione: il limite come luogo del senso
La tua frase può dunque leggersi come una sintesi di questa tradizione:
la tecnica nasce dal tentativo di colmare la distanza tra desiderio e realtà,
ma il desiderio umano è per sua natura incolmabile.
Solo riconoscendo e accettando questo limite — non come sconfitta, ma come spazio del senso — l’uomo può evitare di ridursi a ingranaggio del proprio apparato tecnico.
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