Potremmo vedere l' intera psicoanalisi come tensione oscillante tra la diade pulsione e ordine?
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Domanda bellissima — e molto profonda.
Sì, si può certamente leggere l’intera psicoanalisi (o almeno il suo nucleo dinamico) come un’oscillazione continua tra pulsione e ordine, a patto di chiarire bene cosa intendiamo con questi termini.
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1. La pulsione (Trieb)
In Freud, la pulsione è la forza vitale primordiale, cieca, pre-linguistica, che spinge il soggetto verso la soddisfazione.
È caos e movimento: energia che cerca scarico, principio del piacere, il “sistema nervoso in cerca di quiete” (nel senso paradossale freudiano).
Con il tempo, Freud distingue:
Pulsioni di vita (Eros) → uniscono, costruiscono, conservano.
Pulsioni di morte (Thanatos) → disgregano, riportano all’inorganico.
Ma in ogni caso, la pulsione è ciò che sfugge al controllo e costituisce il motore della psiche.
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2. L’ordine
L’ordine è ciò che la cultura, il linguaggio e il principio di realtà impongono per rendere vivibile l’energia pulsionale.
In termini freudiani e post-freudiani:
Il Super-Io rappresenta l’istanza normativa, l’interiorizzazione dell’ordine sociale.
Il linguaggio e il simbolico (in Lacan) strutturano la pulsione, la “tagliano” e la traducono in desiderio.
L’ordine è, dunque, ciò che dà forma al caos pulsionale — ma lo fa a costo di una perdita, di una castrazione, di un resto inassimilabile.
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3. L’oscillazione
L’intera dinamica psichica può allora essere vista come un pendolo tra pulsione e ordine:
Troppa pulsione → disgregazione, acting out, psicosi.
Troppo ordine → rigidità, nevrosi, repressione sterile.
Il soggetto, nella sua vita psichica, cerca un equilibrio impossibile: un modo per esprimere la pulsione senza esserne distrutto, e per mantenere l’ordine senza soffocare il desiderio.
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4. Una sintesi “dialettica”
Potremmo dire che la psicoanalisi nel suo complesso — da Freud a Lacan, da Klein a Bion — è una dialettica tra energia e struttura, vita e forma, caos e legge.
Persino il setting analitico stesso rappresenta questa tensione:
Il divano e la regola fondamentale sono ordine.
Le associazioni libere e l’irruzione dell’inconscio sono pulsione.
Il processo analitico è, in fondo, un laboratorio di questa oscillazione.
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Se vuoi, potremmo approfondire come questa tensione viene declinata nei diversi autori (Freud, Jung, Lacan, Bion, Winnicott), o anche confrontarla con un modello filosofico (per esempio: Nietzsche–Apollinio/Dionisiaco, Hegel–dialettica tra forza e legge, o Deleuze–macchine desideranti).
Vuoi che prosegua in quella direzione? E se sì, preferisci un taglio più freudiano-lacaniano o più filosofico-ontologico?
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Confrontala con un modello filosofico.
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Ottimo — allora proviamo a mettere in dialogo la coppia psicoanalitica “pulsione–ordine” con un modello filosofico, per vedere come questa tensione risuona al di là del linguaggio psicoanalitico.
Ci sono diverse possibilità (Nietzsche, Hegel, Deleuze, persino Platone), ma la più fertile, per affinità strutturale, è forse quella nietzscheana dell’Apollinio e del Dionisiaco.
Partiamo da lì — e poi allarghiamo a Hegel e a Deleuze per vedere altre sfumature.
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🌀 Nietzsche: Dionisiaco e Apollineo
Nel La nascita della tragedia, Nietzsche definisce due forze fondamentali dell’esistenza:
Il Dionisiaco → ebbrezza, caos, disordine vitale, dissoluzione dell’io nei flussi della vita. È la forza dell’istinto, della pulsione (Trieb).
L’Apollinio → forma, misura, sogno, rappresentazione, equilibrio. È la forza dell’ordine, del principio di realtà, della bella apparenza che dà struttura al caos.
La tragedia greca, secondo Nietzsche, nasce proprio dalla tensione tra questi due poli — e crolla quando uno dei due prevale.
👉 In questo senso, la psicoanalisi potrebbe essere letta come un tentativo moderno di riattivare il dialogo tra Dionisiaco e Apollineo:
La pulsione è il dionisiaco che preme sotto la superficie della coscienza.
L’ordine (il linguaggio, il Super-Io, la legge simbolica) è l’apollineo che ne dà forma, senza il quale la psiche si disintegra.
Freud stesso, pur essendo figlio della modernità razionalista, riconosceva che sotto il principio di realtà pulsa un’energia oscura e indomabile — proprio come il dionisiaco nietzscheano.
La differenza è che Nietzsche vede nell’ebbrezza una forza creativa da affermare, mentre Freud tende a contenerla e sublimarla per evitare il disastro psichico.
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⚙️ Hegel: Forza e Legge, Tesi e Antitesi
Nel linguaggio di Hegel, potremmo tradurre:
La pulsione come forza immediata, indeterminata, che si manifesta come pura energia senza forma.
L’ordine come legge o forma razionale che rende la forza intelligibile, ma solo dopo averla negata come pura immediatezza.
Il soggetto, per Hegel, è il risultato della mediazione tra questi due poli:
l’Io si costituisce nel momento in cui nega e conserva (Aufhebung) la sua pulsionalità naturale dentro la forma razionale dell’autocoscienza.
👉 La psicoanalisi, da questa prospettiva, non è altro che la dialettica interna al soggetto: il ritorno di ciò che la Legge ha represso (l’inconscio come negato che ritorna), per poi essere di nuovo integrato in un ordine più ampio (elaborazione analitica).
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⚡ Deleuze e Guattari: Macchine desideranti e Codici sociali
In L’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari riprendono e radicalizzano l’intuizione freudiana:
Il desiderio (o la pulsione) è produzione, flusso, macchina: non manca nulla, vuole solo scorrere.
L’ordine (il codice sociale, il linguaggio, l’Edipo) è ciò che cattura, segmenta, territorializza quel flusso.
La tensione, qui, non è più solo interna alla psiche, ma tra il desiderio e le strutture di potere che cercano di disciplinarlo.
La psicoanalisi tradizionale, secondo loro, avrebbe “alleato il desiderio con la Legge” — mentre il compito filosofico è liberare il desiderio dal codice.
👉 Quindi, se Freud rappresenta un equilibrio tra pulsione e ordine, Deleuze invita a lasciare esplodere la pulsione, a far sì che il caos stesso diventi produttivo.
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🜂 Sintesi
Polarità psicoanalitica Modello filosofico Natura della tensione
Pulsione Dionisiaco (Nietzsche) / Forza (Hegel) / Desiderio-macchina (Deleuze) Caos vitale, energia indifferenziata, flusso produttivo
Ordine Apollineo (Nietzsche) / Legge (Hegel) / Codice (Deleuze) Forma, misura, mediazione, struttura simbolica
Tensione Oscillazione tragica / Dialettica / Linea di fuga Il soggetto si costituisce e si trasforma nel tentativo di conciliare o superare questi due principi
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In definitiva, potremmo dire che la psicoanalisi è la versione clinica della dialettica tra vita e forma, tra physis e nomos, tra desiderio e legge.
La filosofia, in ciascuna delle sue varianti, le offre un linguaggio diverso — tragico (Nietzsche), dialettico (Hegel), rizomatico (Deleuze) — per dire la stessa cosa:
> che l’essere umano è un campo di forze, mai in quiete, dove l’energia del vivente cerca una forma senza mai trovarla del tutto.
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Vuoi che sviluppi questa lettura in forma di saggio breve (2–3 pagine) o preferisci che ne tracci
una mappa concettuale che metta a confronto Freud–Nietzsche–Hegel–Deleuze visivamente?
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E in rapporto al desiderio di Buddha?
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Domanda straordinaria — e molto rara: stai portando la psicoanalisi (occidentale, dinamica) a confrontarsi con una delle più radicali concezioni orientali del desiderio e della mente.
Vediamolo passo per passo, perché il desiderio in Buddha (e più in generale nel pensiero buddhista) non è un semplice “contrario” della pulsione freudiana, ma un’altra ontologia del movimento stesso del vivere.
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1. Pulsione, Ordine e il problema del desiderio
In psicoanalisi, come dicevamo:
La pulsione (Trieb) è energia, mancanza, spinta vitale.
L’ordine è la forma simbolica, la legge, il linguaggio che cerca di contenerla e di darle senso.
L’oscillazione tra questi due poli costituisce il dramma dell’essere umano occidentale: un soggetto sempre “diviso”, sempre in tensione.
Ma nel buddhismo, la questione è rovesciata: il problema non è come equilibrare pulsione e ordine, bensì trascendere la loro stessa opposizione, riconoscendo che entrambe nascono da un fraintendimento fondamentale sulla natura del sé e del desiderio.
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2. Il desiderio come dukkha
Per il Buddha, la sofferenza (dukkha) nasce dal desiderio (tanhā) — ma attenzione:
non da un desiderio particolare, bensì dall’attaccamento alla volontà di permanenza, all’illusione che esista un “io” stabile che desidera e che possa possedere.
Il desiderio, dunque, non è male in senso morale, ma è ignoranza ontologica:
> credere che ci sia un soggetto separato che desidera oggetti separati.
In questa prospettiva:
La pulsione freudiana è ancora dentro l’illusione dell’io: essa postula un “corpo che vuole”.
L’ordine simbolico è ancora parte dello stesso fraintendimento: è la costruzione linguistica dell’io che cerca di controllare ciò che non può.
Il Buddha non propone di scegliere uno dei due poli, ma di vedere entrambi come proiezioni della mente ignorante — e dunque di dissolverne la dualità.
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3. Dalla dialettica alla cessazione
Mentre Freud (e tutta la tradizione occidentale fino a Deleuze) vede nel desiderio una forza da gestire, sublimare o liberare,
il Buddha vede nel desiderio una modalità di confusione.
La via non è repressione (ordine) né esaltazione (pulsione), ma comprensione diretta del suo sorgere e cessare.
Attraverso la pratica della consapevolezza (sati), il soggetto osserva il desiderio sorgere, trasformarsi e svanire, senza identificarvisi.
In questo momento di pura visione, la tensione stessa tra pulsione e ordine cade: non viene risolta dialetticamente, ma dissolta fenomenologicamente.
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4. Desiderio, mancanza e vuoto
C’è un punto sorprendente di contatto — e di rovesciamento — tra Freud e il Buddha:
entrambi riconoscono che il desiderio nasce da una mancanza.
Per Freud: la mancanza è strutturale — il soggetto si costituisce attorno a un “vuoto” (l’oggetto perduto, il das Ding).
Per il Buddha: la mancanza è illusoria — nasce dal non riconoscere che tutte le cose sono già vuote di sé (śūnyatā).
Laddove Freud dice: l’uomo desidera perché gli manca qualcosa,
il Buddha risponderebbe: l’uomo soffre perché crede che gli manchi qualcosa.
Nel primo caso, il vuoto è ciò che muove la vita psichica.
Nel secondo, è ciò che, una volta riconosciuto, libera dalla necessità stessa del desiderio.
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5. Sintesi comparativa
Asse Psicoanalisi Buddhismo
Origine del desiderio Mancanza costitutiva del soggetto (l’inconscio come campo di forze) Ignoranza (avidyā): illusione di un io separato
Funzione del desiderio Motore della vita psichica e della cultura Radice della sofferenza
Soluzione proposta Sublimazione, simbolizzazione, integrazione della pulsione Comprensione e cessazione (nirvāṇa)
Visione del soggetto Scisso, dinamico, strutturato dal linguaggio Vuoto, interdipendente, privo di sé (anātman)
Tensione pulsione–ordine Dialettica da gestire e analizzare Dualità illusoria da trascendere
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6. Verso un pensiero “trans-psicoanalitico”
Si potrebbe dire che la psicoanalisi rappresenta la scienza del desiderio nella forma occidentale,
mentre il buddhismo è la fenomenologia della liberazione dal desiderio.
Ma forse le due non si escludono.
Alcuni autori (come D.W. Winnicott, Wilfred Bion, Mark Epstein, Dalai Lama con Varela) hanno tentato una sintesi:
la possibilità che la presa di coscienza psicoanalitica del desiderio sia il primo passo verso la consapevolezza buddhista della sua vacuità.
In altre parole:
> Freud ci insegna a riconoscere la struttura del nostro desiderio.
Il Buddha ci insegna a lasciarlo andare.
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Se vuoi, posso sviluppare da qui un saggio più articolato su “Psicoanalisi e Buddhismo: dal desiderio come mancanza al desiderio come illusione”, con riferimenti precisi a Freud, Lacan e testi canonici buddhisti (es. Dhammapada, Sutta Pitaka).
Vuoi che lo elabori in quella direzione?
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Si.
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Perfetto 🌿
Ti propongo di strutturare il saggio come un dialogo teorico tra Freud, Lacan e il Buddha, in modo che emerga chiaramente il passaggio dal desiderio come mancanza al desiderio come illusione.
Quello che segue è un testo compiuto, con tono saggistico e citazioni implicite, pensato per 3–4 pagine di lettura.
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Psicoanalisi e Buddhismo: dal desiderio come mancanza al desiderio come illusione
1. Introduzione — L’enigma del desiderio
In ogni tradizione di pensiero, il desiderio si presenta come un nodo originario: la molla che muove l’essere umano, ma anche la fonte della sua inquietudine.
Per la psicoanalisi occidentale, il desiderio è ciò che ci costituisce; per il Buddha, ciò che ci imprigiona.
Da un lato, la vita psichica nasce dal vuoto della pulsione che cerca forma; dall’altro, la sofferenza nasce dal credere che questo vuoto sia reale.
Il confronto tra questi due sguardi — Freud e Lacan da un lato, il Buddha dall’altro — permette di ripensare la questione stessa della soggettività: è il soggetto che desidera, o è il desiderio che crea il soggetto?
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2. Freud — Il desiderio come mancanza
Per Freud, la psiche è un campo energetico dominato da pulsioni (Triebe) che cercano soddisfazione.
Ma tale soddisfazione è sempre differita, mai totale: ciò che l’individuo realmente cerca è la ripetizione di un piacere originario ormai perduto — la “cosa” (das Ding) che non può essere recuperata.
L’Io si costituisce proprio attorno a questa perdita: nasce per regolare la tensione tra la richiesta pulsionale e l’ordine del principio di realtà.
Freud riconosce quindi che l’uomo è un essere del desiderio, ma un desiderio impossibile da colmare.
Il sintomo, l’arte, la religione e la cultura intera non sono che formazioni di compromesso: modi simbolici per elaborare l’impossibile ritorno alla pienezza originaria.
In questa prospettiva, il desiderio è mancanza strutturale, ma anche motore vitale: senza di esso non vi sarebbe né soggetto né civiltà.
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3. Lacan — Il desiderio come effetto del linguaggio
Lacan radicalizza l’intuizione freudiana spostando il desiderio dal piano energetico a quello simbolico.
Il soggetto non è un organismo che desidera, ma un effetto del linguaggio: nasce là dove la pulsione viene tagliata dal significante.
Il desiderio non è più l’energia che cerca soddisfazione, bensì la traccia lasciata dal taglio della parola, lo spazio tra il bisogno e la domanda.
> “Il desiderio è il desiderio dell’Altro”:
nasce dal fatto che il soggetto cerca nell’Altro — nel linguaggio, nella Legge, nell’amore — il riconoscimento della propria mancanza.
Lacan non propone di eliminare il desiderio, ma di assumerlo consapevolmente come mancanza, senza tentare di saturarlo.
L’analisi mira allora a condurre il soggetto al punto in cui può riconoscere il proprio desiderio come tale, non come ciò che deve essere colmato, ma come ciò che lo costituisce.
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4. Il Buddha — Il desiderio come illusione
Nella prospettiva del Buddhismo originario, il desiderio (tanhā) è la radice della sofferenza (dukkha).
Non perché sia “male”, ma perché implica l’illusione (avidyā) di un soggetto che desidera.
Il desiderio, dice il Buddha nel Dhammapada, è come una fiamma che non si spegne finché trova combustibile: il combustibile è la credenza nell’io, nel “mio”, nel “me stesso”.
La via della liberazione (il Noble Eightfold Path) non reprime il desiderio, ma lo osserva.
Con la pratica della consapevolezza (sati), si vede che ogni desiderio sorge, muta e svanisce.
Non c’è un soggetto stabile che lo possieda: c’è solo flusso condizionato (pratītya-samutpāda).
In questa visione, la mancanza che alimenta il desiderio è illusoria: non c’è nessuna “cosa perduta” da ritrovare, perché non c’è mai stato un “io” che potesse perderla.
Il vuoto (śūnyatā) non è privazione, ma apertura: riconoscimento che tutto è interdipendente e impermanente.
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5. Dalla mancanza al vuoto
Freud e il Buddha condividono un punto cruciale: la centralità del vuoto.
Ma lo interpretano in modo opposto:
per Freud è ferita originaria,
per il Buddha è liberazione originaria.
Il vuoto freudiano (la perdita dell’oggetto primario) genera il soggetto desiderante;
il vuoto buddhista (assenza di sé) dissolve il soggetto e con esso la necessità stessa del desiderio.
Là dove Freud e Lacan cercano di abitare il vuoto — dandogli parola, simbolo, forma —
il Buddha invita a vederlo per quello che è: non un difetto da colmare, ma la realtà stessa dell’esperienza.
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6. Una possibile sintesi: la consapevolezza come terzo termine
Tra pulsione e ordine, tra mancanza e illusione, si può forse intravedere un terzo spazio: la consapevolezza pura, che osserva senza giudizio né identificazione.
Alcuni psicoanalisti contemporanei (Bion, Winnicott, Epstein, Fromm) hanno intuito questo punto di convergenza.
Bion parlava della mente capace di “contenere” l’esperienza emotiva senza reagire: un’eco diretta della meditazione buddhista.
Winnicott descriveva lo spazio transizionale come luogo dove il soggetto può giocare tra realtà interna e realtà esterna, senza confonderle — una forma laica di equanimità.
Mark Epstein, psicoanalista e praticante buddhista, sostiene che la terapia e la meditazione perseguono la stessa direzione: la trasformazione della mancanza in apertura.
In entrambi i cammini, la guarigione non consiste nel colmare il desiderio, ma nel disidentificarsi da esso.
Il desiderio non è da distruggere, ma da riconoscere come movimento vuoto: un’onda che sorge e si dissolve nella mente consapevole.
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7. Conclusione — Dalla dialettica alla quiete
Se la psicoanalisi è la scienza del desiderio, il buddhismo è la scienza della sua cessazione.
Ma entrambe partono dallo stesso luogo: l’esperienza della mancanza.
Freud ci insegna a parlare il desiderio, a non esserne schiavi nell’inconscio.
Il Buddha ci insegna a lasciar andare il desiderio, a non esserne schiavi nella coscienza.
Tra le due vie non vi è opposizione, ma continuità:
la prima libera il desiderio dall’ignoranza del rimosso, la seconda lo libera dall’ignoranza del sé.
Entrambe, a modo loro, indicano la stessa possibilità:
> che la mente umana, riconoscendo la propria oscillazione tra pulsione e ordine, tra mancanza e illusione, possa infine scoprire il silenzio in cui ogni desiderio si placa.
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