Sembra che l’attività spirituale
consista nel “cercare se stessi”: evidentemente sentiamo che ci manchi
qualcosa, che siamo difettosi, incompleti , imperfetti. Questa è la nostra
unica certezza.
Ma qual è il metro di riferimento in
base al quale ci sentiamo mancanti? Abbiamo mai conosciuto qualcosa di
perfetto, di completo e di esistente in sé e per sé? Nessuno conosce niente del
genere. E allora si tratta di una nostra fantasia, di un mito della mente. Lo
chiamiamo assoluto, dio, natura divina, natura di Buddha e così via.
Ci sentiamo mancanti, ma non sappiamo
neppure di che cosa manchiamo. Forse di qualcosa di stabile, di eterno, di
immortale. Ma chi ci ha detto che esista? Utopia…
Ciò che esiste e che è reale è così, è fatto così, come tutti noi. E
sente una mancanza. Il paradiso perduto?
In certi rari momenti ci sentiamo a
nostro agio, in armonia e sembra non mancarci nulla. E, quando siamo in armonia
con il mondo e con noi stessi, non cerchiamo nulla – tanto meno noi stessi.
Ma la nostra coscienza no. La nostra
coscienza, come apre l’occhio, si sente infelice. Sente che le manca qualcosa.
Ed è inevitabile, perché per sentire,
per percepire e per percepirsi, deve dividersi in due, deve separare sé dagli
altri, deve creare una distanza tra il mondo esteriore e il mondo interiore.
La coscienza non può che essere
infelice. Esiste però una sua funzione più elevata o più profonda – chiamiamola
consapevolezza – che conosce se stessa senza bisogno di dividere e di
dividersi. Sa di essere senza doversi definire, sa che è unita al tutto, sa di
essere eterna, al di fuori del tempo e dello spazio. Peccato che duri poco – a meno
che non ci addestriamo a risiedere sempre più a lungo in essa.
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