Sembra che “fare meditazione” sia
oggi un’attività non in linea con la vita moderna, dove tutti siamo oberati di
impegni ed è quasi impossibile fermarsi. È come se fossimo tutti spinti da un
unico fiume che non si ferma mai e che non ci permette di fermarci.
Ma non è una novità: è sempre stato
così, tanto che l’immagine del fiume che ci trascina tutti, volenti o nolenti,
è antica quanto il mondo. Che cos’è il simbolo della “ruota del dharma”, o
della la ruota del tempo, se non questa stessa immagine di un divenire che non
ci dà tregua? Il samsara è
esattamente questo. E che cos’è l’antico simbolo del Tao, con lo yang e lo yin,
se non questo?
Anche l’impermanenza è esattamente questo.
È una
forza, basata sul cambiamento, che impedisce ad ogni cosa e ad ogni essere di stare
immobile.
Proprio qui noi ci ribelliamo. Non
nel senso che vogliamo opporci al tempo, ma nel senso che ci ancoriamo all’unico centro, all’unico punto di riferimento che possediamo: la nostra stessa
consapevolezza. Un’isola si salvezza e di contemplazione, in mezzo al grande
mare delle onde, dei venti e delle correnti. Un punto fermo in un oceano
instabile.
Stare immobili fisicamente corrisponde
in realtà ad essere consapevoli, a prendere la consapevolezza come testimone
immobile del divenire.
Mentre il tempo, il divenire e il
cambiamento compiono il loro lavoro infaticabile, noi abbiamo una facoltà che è
in grado di esserne testimone.
Essere testimoni è essere immobili, è
evocare un punto di osservazione che è in grado di mantenersi al di fuori del
samsara.
Chi medita mette la testa fuori dal
tempo e dal mondo convenzionale per rendersi conto della condizione umana, ha
il coraggio di non essere attuale, di non farsi trascinare come una pecora dal
branco, di ribellarsi al così fan tutti e di essere se stesso.
Alla fine si capirà chi ha avuto
ragione e chi torto.
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