Nel buddhismo tibetano e nel
Vajrayana indiano, lo yidam è la divinità protettrice dell’individuo. E ognuno
ha la sua. Ma non si tratta di un santo protettore, simili a quelli che
conosciamo nel cristianesimo. Ci dev’essere una certa affinità psicologica tra
il devoto e lo yidam. Quando perciò il fedele si rivolge al suo dio protettore,
in realtà riconosce le proprie disposizioni psicologiche e lavora su di esse.
Da qui varie tecniche meditative in cui ci si visualizzata come yidam.
Le menti più illuminate,
però, hanno già precisato che questi yidam sono un’immagine divinizzata
dell’individuo; quindi, più che con figure concrete, si ha a che fare con
proprie rappresentazioni psicologiche.
Procedendo oltre, si può
dire che lo yidam è la parte divina di ciascuno. Poiché noi abbiamo un’anima
immortale, abbiamo in noi una scintilla divina; e identificare lo yidam
significa riconoscere la nostra stessa divinità.
“Tu sei dio, e non lo sai”
diceva Nisargadatta. Sei un dio alienato e decaduto, un dio che ha dimenticato
la propria origine. E rivolgerti allo yidam significa far un’opera di ricordo
di essa.
Ma, a pensarci bene, tutte
le divinità non sono che proiezioni della nostra mente, la quale, in quanto
frammento della mente divina, proietta ogni immagine di Dio e degli dei. E
dunque ogni tecnica di meditazione a questo si riduce: a riconoscere la propria
natura divina.
“Tu sei un essere divino, e
te lo sei dimenticato.”
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