Nessuno può
essere soddisfatto della condizione umana. Si tira avanti come si può, si tenta
di trarre il meglio…ma non possiamo evitare il peggio. Possiamo al massimo
limitare i danni e ridurre l’infelicità inutile, quella che deriva da
ambizioni, da pretese e da ambizioni fasulle.
Comunque si
tratta di una condizione intermedia, non stabile, soggetta ad una buona dose di
sofferenza. La saggezza ci insegna a soffrire il meno possibile, ad evitare
motivi di conflitto non necessari, ma non possiamo evitare le sconfitte, gli
insuccessi, le perdite, le malattie, la vecchiaia, la morte…
Quando perciò
proviamo un senso di irrealtà o di insoddisfazione, è più che giustificato. Non
lo scacciamo come cosa importuna; è la nostra esigenza di felicità e di
perfezione che lo alimenta. È un utile punto di partenza per andare oltre.
Noi aspiriamo ad
una condizione più stabile, più felice, più piena. E questo sentimento di
“dolore da finitezza” è il segno che non ci accontentiamo e che possiamo e
dobbiamo mirare più in alto. Nessun altro essere vivente lo prova. È la
conferma che nutriamo una incancellabile spinta alla trascendenza.
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