La più grande sfida alle
religioni teiste (ebraismo, cristianesimo, islam, ecc.) viene dal buddhismo.
Mentre infatti tutte le religioni teiste seguono all’ingrosso uno stesso schema
– c’è il Dio creatore, c’è un anima da lui creata, c’è il profeta o il salvatore
inviato da Dio, c’è il libro sacro, c’è la promessa di un paradiso o di un
inferno, ecc. –, il buddhismo non solo non crede in un Dio, ma sostiene anche
che non esiste un’anima eterna; anzi, afferma che proprio queste credenze sono
alla base del nostro stato di schiavitù, perché ci legano a un attaccamento
egoistico che non ci permette una vera liberazione. Gli uomini continuano a
nascere, a riprodursi, a morire e a soffrire perché sono abbagliati da una
forma di ignoranza che non consente loro di vedere quanto la vita sia
sostanziata di dolore. Se lo vedessero, se se ne rendessero conto, cesserebbero
di desiderare di esistere o di conquistare un buon posto su questa stessa terra
in una prossima rinascita o in qualche paradiso ultraterreno. Non c’è infatti
nessun livello dell’essere che sia libero dalla sofferenza. È proprio la
dimensione dell’essere che va eliminata. Il nirvana
buddhista non è uno stato migliore dell’attuale, ma una forma di estinzione.
Subito il teista accusa questa
religione di essere nichilista. Come si fa a rinunciare all’idea che esista
un’essenza immortale che ci sopravvive? Come si fa ad abbandonare la speranza
in una rinascita migliore o in una resurrezione? Non si butta il via con
l’acqua sporca (la sofferenza) anche il bambino (l’anima)? Qualcuno potrebbe
inoltre pensare: perché darsi tanto da fare per progredire se il sé è destinato
a sparire?
La risposta del buddhismo (e
delle religioni che credono nella reincarnazione) è che non si può sfuggire
alla legge del karma e quindi alle conseguenze delle proprie azioni. Non serve
morire e non servirebbe nemmeno suicidarsi. Quel sé che non è eterno è tuttavia
ben radicato – nel desiderio, nell’attaccamento, nell’illusione e alla fine
nella sofferenza. Paradossalmente, non è affatto facile liberarsene; esso
continuerà a esistere da una vita all’altra e dovrà scontare tutto il karma
accumulato.
Il buddhismo non spiega da dove
nasca una simile legge perfettamente retributiva, che, tutto sommato, potrebbe
essere assimilata ad una specie di Volontà divina...ma completamente
impersonale. E non spiega neppure chi abbia messo in moto questo piano di
realtà, con tutti i suoi esseri. Non nega che esistano stati migliori, paradisi
e dèi. Ma afferma che niente di tutto questo è eterno e che nessun essere è
esente dalla sofferenza. Anzi, la condizione umana è privilegiata, perché
permette di incamminarsi sulla via della liberazione.
Mentre l’obiettivo del teista è
raggiungere uno stato paradisiaco, il buddhista sostiene che nemmeno questo
stato può essere definitivo e che la meta ultima è liberarsi di ogni sete di
essere (o di non essere).
Come fare? La via non può che
essere quella della consapevolezza e del distacco. Con la consapevolezza ci si
rende conto dello stato di sofferenza di cui siamo vittime e con il distacco
(non-attaccamento) ci si libera delle illusioni e dei condizionamenti. Ma la
strada è lunga e non rischiamo affatto di scomparire nel nulla subito dopo la
morte; ci vorranno molte vite, molte sofferenze e molta meditazione prima che
in noi si faccia strada un barlume di luce. Nel frattempo continueremo a
credere che si possa vivere senza soffrire e sogneremo di stati paradisiaci e
divini in cui, non si sa come, potremo vivere in eterna letizia.
Solo il buddhista non si fa
illusioni e sa che l’ultima rinuncia sarà proprio quella dell’attaccamento al
proprio ego. Chi avrà ragione? Difficile dirlo, ma resta il fatto che la
concezione buddhista è la sfida più radicale alle nostre credenze e fa apparire
le varie teologie giochi di bambini.
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