Nessuno
è disposto ad ammettere di non esistere, di non essere. Sentendosi vivo,
presente e consapevole, non può accettare di essere una pura apparenza, un
riflesso, un sogno, un’ombra. E, anche se fossi un ombra – ragiona – dovrebbe
esserci qualcuno che la proietta. Dunque…
Ma
una volta che cerca di cogliere questo soggetto, non ci riesce.
La
verità è che noi ci cogliamo sì vivi, ma con un senso di mancanza, di incompletezza,
per non dire di sofferenza. Ogni volta che cerchiamo di afferrarci, ci
trasformiamo in oggetti e quindi ci sfugge il soggetto.
Il
fatto è che questo esistere è uno
stato quanto mai incerto e precario; non è per niente qualcosa di solido e
completo. E sappiamo benissimo che in certi momenti, per esempio quando
dormiamo o quando siamo sotto sedazione, siamo assenti.
L’esistere
è qualcosa che va e che viene, uno stato secondario, un secondarismo deteriore…
rispetto a qualcosa che sentiamo come primario.
Da
una parte la coscienza ci dice che siamo e in parte chi siamo, ma dall’altra ci
dice che siamo incompleti, cangianti, evanescenti, appesi su un burrone, pronti
a precipitare nel nulla.
Il
problema è che lo stato originario delle cose, e quindi anche il nostro, non ha
affatto bisogno di esistere. È completo e
soddisfacente così com’è. E questo che ci spiazza.
Prima
ci sembrava che l’esistere fosse la settima meraviglia, un colpo di fortuna, ma
ora scopriamo che è solo una scadente emersione temporanea, come quella di un tronco
trascinato dal mare, che ogni tanto esca per brevi istanti dall’acqua.
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