Non c’è dubbio che gli esseri
viventi amino la vita. Non vorrebbero mai morire, non vorrebbero mai perdere la
loro identità, la loro individualità. Ma vivere significa anche soffrire –
talvolta parecchio. Ecco allora che ci sono dei casi in cui la sofferenza è
talmente forte che si preferisce rinunciare all’esistenza.
In un senso più lato,
noi moriamo proprio perché, invecchiando, ci deterioriamo e soffriamo a tal
punto da desiderare anche la morte.
La morte è già inscritta
nella vita.
Dunque, anche l’amore
per l’esistenza, la spinta a vivere, ha in sé il suo contrario. Freud se n’era
accorto e aveva identificato, accanto ad Eros (la pulsione della vita),
Thanatos (la pulsione della distruttività e della morte).
Se gli uomini desiderano
la vita, vogliono in realtà anche la morte.
Come succede sempre,
come avevano già scoperto i taoisti, le pulsioni contrapposte (yin-yang) sono sì
antagoniste, ma si sostengono a vicenda. L’una non potrebbe esistere senza l’altra.
Dobbiamo quindi concludere che chi ama la vita è portato anche (senza
rendersene conto) alla distruttività e
alla morte.
Per capire questo
paradossale meccanismo, dobbiamo pensare che all’inizio c’è qualcosa che vuole
emergere, assumere una forma, individualizzarsi e perpetuarsi, ma, con il
processo di invecchiamento e con l’aumento della sofferenza e della
consapevolezza, arriva a voler disfarsi di tutto e innesca il processo opposto:
quello della dissoluzione e del recupero dell’unità originale con il Tutto.
Questi due movimenti
agiranno lungo l’intera esistenza finché prevarrà di nuovo il processo di
riunificazione con l’Uno magmatico, da cui ogni cosa esce e rientra.
Il mondo non è affatto
semplice. È paradossale, E le spinte contrapposte
sono sempre presenti. Questo è un dato di fatto.
Volendo essere
ottimisti, diciamo che anche la morte va vista come un desiderio di piacere –
il piacere di liberarsi del peso dell’io e della vita individualizzata.
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