Viveka in sanscrito
significa discernimento tra vero e falso, chiara comprensione. Ed è una facoltà molto utile
perché a volte le cose le sappiamo solo confusamente o non ci pensiamo affatto.
Per esempio, noi sappiamo di essere e di
essere coscienti. Ma più in là non andiamo. Siamo circondati da troppi misteri.
Sappiamo soltanto che il senso di essere e la coscienza sono legati al corpo e
alla mente, e sono destinati a sparire.
Ma non sappiamo da dove vengono. Prima
che nascessimo e ci formassimo non c’erano, poi compaiono e infine scompaiono.
C’è qualcosa che ci sfugge, che non è affatto chiaro. Ed è qui che dobbiamo
usare viveka.
Per farlo, dobbiamo osservare meglio il
fenomeno della coscienza, che è alla base del senso di essere. Se questi
compare e scompare, come per un gioco di prestigio, vuol dire che viene da una
condizione preesistente che non ha affatto bisogno di una tale consapevolezza.
C’è qualcosa prima che può “essere”
senza il senso dell’io. Per noi è impossibile definirla perché i nostri
concetti sono duali ed hanno bisogno di un soggetto. Ma colui o ciò che ne è
consapevole è a sua volta un pezzo di quel quid indefinibile.
Ecco perché la meditazione deve essere
una reintegrazione di ciò che c’era prima di tutto, prima della coscienza
stessa.
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