Il paradosso è che ciò che crediamo di
sapere di noi stessi non è vero, perché la nostra conoscenza abituale – quella fatta
di concetti, parole, definizioni, contrapposizioni, immagini e percezioni - non
può cogliere ciò che siamo veramente, in prima o in ultima istanza. Mentre
infatti la nostra conoscenza è duale (cioè conosce ciò che è diverso da sé), il
Sé, l’atman, non è duale (ossia è prima
del sapere nostrano).
A noi sembra di essere un certo
corpo-mente, e lo siamo in questo mondo. Ma il Sé è anteriore a questa
conoscenza: è ciò che conosce e non ciò che è conosciuto. È il testimone.
Nel mondo del Sé non c’è né inizio né
fine, né tempo né spazio. Mentre per il nostro ego attuale, la fine del
corpo-mente è terrorizzante e fa sperare in qualche Dio che ci salvi, per il Sé
la morte è una grande gioia. È la fine delle illusioni.
C’è dunque una bella differenza tra chi
muore con la convinzione di essere un ego dotato di corpo-mente e chi è
convinto di essere già al di là. Ciò che muore è un’apparenza, un rivestimento,
un’illusione.
La conclusione è che non possiamo
conoscere con i nostri concetti ciò che siamo veramente, ma solo esserlo.
Da qui la necessità dell’immedesimazione
meditativa e l’inutilità delle preghiere e delle altra pratiche religiose che
sono solo prodotti della mente.
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