La nostra massima paura è perdere
ciò che ci contraddistingue: il nostro io, la nostra individualità, la nostra
identità. Per noi questa è la morte. Anche se rimanessimo in vita, ma
perdessimo la coscienza, sarebbe comunque la morte.
Siamo così attaccati alla nostra identità che il successo
delle religioni dipende dal fatto che ci promettono la sopravvivenza individuale dopo la morte.
Però dall’Oriente ci viene un’altra idea: che la fine dell’individualità
non sia la fine di tutto, ma l’acquisizione di una libertà priva di vincoli. In
tal senso si parla di liberazione.
La nostra coscienza, liberata da speranze, desideri e paure,
cioè dal senso dell’io, si allarga all’infinito e contiene il mondo intero.
Contrariamente
all’etimologia comune (individuus =
non diviso), l’individuo è diviso sia dagli altri sia al proprio interno - è il
regno della dualità, tanto che il contrario dell’individualità è la non-dualità.
In ognuno di noi alberga non un’identità fissa e unica, ma una molteplicità
cangiante. L’io è sempre diviso ed è un campo di impulsi contrari.
Il
problema è che ciò che noi conosciamo non è ciò che conosce: abbiamo sempre un’idea
sbagliata della nostra identità. Colui che conosce non è l’io che crediamo di
conoscere, ma il testimone a priori. Quella è la nostra vera identità, qualcosa
che non sta affatto entro i limiti del conosciuto. Ed è con lei che dovremmo familiarizzarci.
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