Quando
la vita ci pare ormai vuota di senso, sempre più opaca, devitalizzata,
inquadrata, prevedibile e simile ad uno stato vegetativo, proviamo un’angoscia
cui cerchiamo di reagire, buttandoci nel lavoro, nel sesso, nel cibo, nella
religione, nell’amore, nella riproduzione, nella droga, nello shopping, nel
consumismo, nel turismo, nei viaggi, nello studio o nella ricerca di notorietà.
Tutto pur di non pensare. Avere successo ci sembra un modo per essere, per
avere un’identità e un senso. Ci agitiamo come se cercassimo di acchiappare
mosche.
Ma
si tratta di vie di fuga, di forme di stordimento, di modi per non pensare. Facendo
così, non troveremo nessun senso obiettivo.
Quando
cerchiamo di credere in un Dio che dia un ordine finalistico e che la vita sia
in qualche modo funzionale a qualcos’altro (per esempio a un’altra vita o al
raggiungimento di qualche luogo paradisiaco, ci buttiamo sempre più la zappa
sui piedi ed è come se nascondessimo l’angoscia sotto il tappeto.
Il
problema è che la nostra razionalità non è la logica dell’esistenza. Non c’è
fine, non c’è scopo, non c’è senso come lo intendiamo noi. C’è un “senso” che
non è un semplice significato che la nostra mente possa afferrare.
È
un “senso” nascosto e fuggente, al di là della mente. E ognuno deve cercare il
suo.
Certo,
ognuno ha una missione e una vocazione, e, se non la scopre, è destinato a star
male. Ma, per farlo, non deve cercare il “pieno” del senso. Deve piuttosto
cercare, prima, quel “vuoto di senso” che è in realtà l’antica energia, la via
originale, la fonte, che ci permette di rientrare in contatto con noi stessi.
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