Vi cito alcuni versi della Bhagavad Gita che trattano il tema del distacco (vajragya, non-attaccamento):
- Capitolo 2, verso 47: “Il tuo diritto è solo all’azione, mai ai frutti. Non considerarti la causa dei risultati delle tue azioni, né attaccarti all’inazione.”
- Capitolo 2, verso 71: “Colui che rinuncia a tutti i desideri e vive libero da brame, senza senso di possesso e senza ego, raggiunge la pace.”
- Capitolo 5, verso 10: “Chi compie le azioni offrendo i frutti a Brahman rimane illeso dal peccato, come una foglia di loto dall’acqua.”
- Capitolo 6, verso 4: “Si dice che un uomo sia rinunciante quando non è attaccato né ai sensi né alle azioni, e ha rinunciato a ogni desiderio di frutto.”
Il distacco non è freddezza o indifferenza: il distacco non significa assenza di sentimenti, ma libertà dall’attaccamento egoistico e dai risultati delle azioni.
Il distacco è equanimità: Krishna insegna ad Arjuna che il vero yogi è colui che rimane equanime nel successo e nel fallimento, nella gioia e nel dolore.
Il distacco è una via alla liberazione, perché recide l’attaccamento e conduce alla pace interiore e alla realizzazione, oltre la catena del karma.
Il distacco è un atto positivo: non è negazione della vita, ma libertà dalle illusioni e dalle delusioni.
Il karma yoga (azione senza attaccamento ai frutti) è la pratica centrale che Krishna propone. Ma è una pratica (difficilissima) che è valida ovunque e sempre.
Nel capitolo 15, il simbolo dell’albero cosmico mostra come le radici dell’attaccamento tengano l’essere vincolato al ciclo della nascita e della morte.
Un uomo evoluto, un uomo superiore, è un uomo distaccato. Guardate invece da quanti ominicchi egocentrici, interessati al proprio tornaconto, siamo circondati. Per questo ci troviamo in crisi. Nessuno, soprattutto chi ci governa (pensate a Trump!), è capace di non pensare prima di tutto ai propri interessi.
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