Riprendo questo articolo di Vanity Fair perché riassume alcune pratiche che nascono dalla cultura orientale della meditazione, ma vengono riprese oggi dalla cultura del benessere.
Le feste arrivano sempre con una promessa di quiete e si presentano puntualmente come il loro contrario. Tavole da organizzare, messaggi da rispondere, famiglie da tenere insieme, aspettative da soddisfare: il calendario dice pausa, la mente continua a correre. In mezzo a questo rumore, il silenzio sembra un’assenza da colmare, non uno spazio da abitare.
Eppure, proprio nei giorni in cui tutto accelera, il silenzio diventa una forma di cura. Non quello assoluto e irraggiungibile, ma quello possibile: dieci minuti senza schermi, una doccia vissuta con attenzione, una passeggiata senza musica, una conversazione che lascia spazio alle pause. È da qui che parte Il silenzio che guarisce (Edizioni Sonda), il nuovo libro del coach Richard Romagnoli, un invito gentile e radicale a rallentare, a smettere di riempire ogni vuoto e a scoprire che proprio lì, in quello spazio che spesso temiamo, può accadere qualcosa di prezioso.
«Il silenzio non è assenza di rumore, ma presenza», racconta Romagnoli. Una presenza che durante le festività può diventare un antidoto allo stress, all’ansia e a quella stanchezza che non se ne va nemmeno quando ci fermiamo. Lo abbiamo intervistato per capire come riportare il silenzio nella vita di tutti i giorni e lasciare che faccia ciò che sa fare meglio: guarire.
Viviamo immersi nel rumore: notifiche, informazioni continue, parole che si accavallano. Perché oggi parlare di silenzio è così urgente?
«Perché abbiamo dimenticato che il silenzio non è assenza di suono, ma presenza. Presenza a noi stessi. Viviamo in un frastuono costante che non si spegne nemmeno di notte, e questo ha un impatto profondo sul nostro benessere. Il silenzio è una necessità biologica: solo quando il cervello smette di essere costantemente stimolato, può rigenerarsi davvero».
Quindi il silenzio non è qualcosa da temere?
«Al contrario. Lo temiamo perché lo confondiamo con il vuoto, con la solitudine o con la noia. Ma il silenzio autentico è uno spazio fertile. È il luogo in cui possiamo riconnetterci con la parte più vera di noi stessi. Non isola, anzi: ci riporta al centro».
Dal punto di vista scientifico, cosa accade al nostro corpo quando entriamo nel silenzio?
«Il silenzio attiva il sistema parasimpatico, quello deputato al riposo e alla rigenerazione. Le ricerche mostrano che favorisce la nascita di nuove cellule nell’ippocampo, migliora la concentrazione, la creatività e riduce il sovraccarico cognitivo. Se il cervello è sempre in modalità “on”, semplicemente non riesce più a recuperare energia».
Eppure molte persone dicono: «Non riesco a stare in silenzio nemmeno dieci minuti».
«È una reazione molto comune. Ma il punto non è “riuscire” a stare in silenzio, perché altrimenti diventa una performance, un’altra cosa da fare bene. Il silenzio non è un atto mentale, è uno stato fisiologico. Non dobbiamo fare nulla, ma semplicemente stare».
Quindi non serve meditare per forza in modo formale?
«Assolutamente no. Il silenzio può arrivare mentre teniamo una tazza di tisana calda tra le mani, sotto una coperta, accarezzando il cane sul divano. Anche dieci o quindici minuti alla settimana possono fare la differenza, se siamo presenti e osserviamo come quel momento ci fa stare. È lì che nasce la ricompensa: il corpo rilascia ossitocina, ci sentiamo accolti».
Nel suo libro parla di «abitudini felici». Che ruolo hanno nel coltivare il silenzio?
«Un ruolo fondamentale. Perché il silenzio diventi parte della nostra vita quotidiana, dobbiamo associarlo a una sensazione di benessere. Osservare come ci fa sentire crea una memoria positiva. È il rinforzo dell’abitudine felice: non lo facciamo per dovere, ma perché ci fa stare bene».
Spesso, però, quando cala il silenzio, la mente diventa ancora più rumorosa.
«Succede perché non siamo in pace dentro. Anche nella stanza più silenziosa del mondo, una camera anecoica, iniziamo a sentire il battito del cuore, il respiro, il flusso del sangue. E se non siamo centrati, la mente comincia a produrre ancora più pensieri. Il silenzio non spegne automaticamente il rumore interiore, ma ci invita ad ascoltarlo».
Nel libro lei parla di silenzio come detox mentale. In che senso?
«Viviamo oltre il limite di tolleranza del nostro cervello. È come un ascensore progettato per sei persone in cui ne entrano quindici: prima o poi va in crash. Il sovraccarico digitale, le cattive notizie, la paura costante ci tengono in uno stato di allerta continuo. Il silenzio ci permette di scaricare questo eccesso e di tornare lucidi».
Anche le relazioni sembrano soffrire di questa incapacità di stare nel silenzio.
«Sì, perché spesso riempiamo gli spazi con parole inutili, per paura del vuoto o dell’imbarazzo. Eppure il silenzio può essere un luogo di intimità profonda, di connessione vera. Non sempre rispondere subito è la cosa giusta. A volte il silenzio è uno spazio di ascolto, per capire cosa stiamo davvero provando».
Lei usa una metafora molto efficace, quella del dentifricio.
«Sì, perché le parole sono come il dentifricio: una volta uscite dal tubetto, non tornano indietro. Quando reagiamo di impulso, spesso diciamo cose che non avremmo voluto dire. Il silenzio, invece, ci dà il tempo di ritrovare equilibrio e lucidità».
Nelle festività, che spesso amplificano stress e aspettative, come possiamo portare il silenzio nella quotidianità?
«Partendo da piccoli momenti. La doccia, per esempio: di solito è solo un gesto automatico, invece può diventare uno spazio di consapevolezza. Sentire l’acqua sulla pelle, il respiro, il corpo. Oppure una camminata senza musica, concentrandosi solo sul passo. Il silenzio non va cercato lontano, è già dentro le pieghe della nostra giornata».
Vacanza deriva da «vacuum», vuoto. Dovremmo smettere di averne paura?
«Sì, perché nel vuoto c’è spazio. Spazio per accogliere parti di noi che non ascoltiamo mai. Il silenzio non ci chiede di fuggire dal mondo, ma di ritrovarci proprio qui, dove siamo».
Se dovesse lasciare un messaggio a chi legge, quale sarebbe?
«Il silenzio non è qualcosa da conquistare, ma da permettere. Se terrai il cuore aperto, scoprirai che non è un nemico, ma una fonte di guarigione e di forza».
Durante le festività, prova la settimana del silenzio
Nel suo libro, Romagnoli propone un percorso di sette giorni, leggero e accessibile, per avvicinarsi al silenzio senza forzature. Piccoli gesti quotidiani, da vivere come una scelta di cura e non come un compito, capaci di alleggerire lo stress, affinare la consapevolezza e aprire spazi nuovi dentro di sé. Il consiglio è seguirli nell’ordine proposto, lasciando che il silenzio si faccia strada con naturalezza.
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