venerdì 16 novembre 2012

Belle parole


Tutti noi, fin da bambini, abbiamo dovuto imparare a impiegare bene le parole. Magari padroneggiamo due o più lingue. E, nella nostra civiltà, è evidente che chi manipola meglio le parole fa più strada. Basta accendere radio o televisione per ascoltare politici, giornalisti, professori, avvocati, sindacalisti, esperti d'arte, economisti e compagnia bella. Sono loro i modelli vincenti, sono loro che occupano i posti più alti della scala sociale. Sanno parlare bene, sanno esprimersi, sanno sviscerare problemi e sanno attirare l'attenzione delle masse che indirizzano in un senso o nell'altro.
Ma le parole, e i concetti che ne stanno alla base, sono strade già tracciate e persorse da altri - non sono una nostra creazione. Dunque, quando le usiamo, in realtà diventiamo dei ripetitori. Dove è finita, allora, la nostra autenticità? Le parole sono concetti standard, mezzi usurati, convenzioni, idee altrui, ed è difficile che diventino "nostre". Quando cerchiamo di esprimere qualcosa di autentico, qualcosa di profondamente sentito o pensato, che cosa facciamo? Rientriamo nei vecchi solchi delle parole e li seguiamo? Com'è possibile esprimere - e anche solo provare - qualcosa di assolutamente personale? Se ci poniamo il problema, scopriamo di essere terribilmente condizionati. Le parole servono ad esprimerci, ma sono anche troppo vecchie, troppo limitate. E ciò che dico o penso io non può che essere qualcosa di ripetitivo, di non personale. Siamo soltanto dei cloni? Siamo degli automi?
Ci crediamo persone uniche, ma utilizziamo pensieri e parole che sono luoghi comuni. Siamo sicuri di essere veri individui? Lo sapete che la parola persona significa "maschera"? E credete che i sentimenti che provate per chi amate siano davvero "vostri", o sono anch'essi produzioni in serie? Se si incomincia a ragionare così, si rischia di impazzire. Ma è una pazzia utile. È come se noi fossimo soltanto delle copie - è come se tutto ciò che pensiamo, sentiamo ed esprimiamo fosse la ripetizione di cose già pensate, provate ed espresse. Alla fine esistiamo veramente o siamo semplici maschere - maschere che sono vuote dentro, che non hanno nessuna sostanza? Altro che anima! Siamo come le formiche. Morti noi, ci sarà un'altra maschera, ci sarà un'altra formica, che ripeterà le stesse cose che abbiamo detto, provato e fatto noi.
Però, riusciamo ad avere questi pensieri e questi dubbi - cosa che le formiche non possono avere. E qui può incominciare il nostro riscatto, la nostra lenta risalita, il nostro risveglio. In che modo? Disimparando tutto ciò che ci è stato insegnato, decondizionandoci, smettendo per un po' di parlare e perfino di pensare. Se vogliamo essere noi stessi, se vogliamo diventare individui autentici, se vogliamo acquisire un'anima, dobbiamo tornare come bambini incapaci di parlare e di scrivere, dobbiamo dimenticare la nostra mente, che è stata così a lungo manipolata, che è il prodotto della società e della cultura.
Questo processo di depurazione o di decondizionamento è ciò che chiamiamo meditazione. Che quindi non può ricorrere né a parole né ai soliti concetti dualistici di bene-male, giusto-sbagliato, vero-falso, vita-morte, eccetera eccetera. Che cosa rimane a nostra disposizione? La nostra attenzione priva di concetti, la nostra consapevolezza nuda, la nostra esperienza diretta, senza filtri. Stare in silenzio, guardare il mondo con distacco, liberarci delle frasi fatte, fare il vuoto interiore... Quello che rimarrà, sarà un'ombra del sé che cerchiamo.

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