C’è una differenza tra coscienza e autocoscienza, in
quanto la prima è diretta agli oggetti esterni ed è connessa alla nostra
percezione del mondo (e quindi è comune agli altri animali), mentre la seconda
è la consapevolezza di essere coscienti, e sembra tipica degli esseri umani. La
prima è una sensazione rivolta all’esterno, mentre la seconda è una
consapevolezza interiore che sviluppiamo quando riflettiamo sul nostro essere
coscienti: è la visione interiore contrapposta alla visione esteriore delle
cose.
Ma la distinzione è puramente teorica, perché l’una
presuppone l’altra. Io sono consapevole dell’oggetto di fronte a me perché sono
cosciente contemporaneamente dell’oggetto e di me stesso. Anche il leone che
incontra una gazzella è cosciente della gazzella e di se stesso. La differenza
rispetto all’uomo è che l’uomo può rifletterci su, mentre il leone e la
gazzella fanno tutto istintivamente. Il leone sa di sé mentre sa della
gazzella, e la gazzella sa di sé mentre sa del leone.
Noi però possiamo ragionare e riflettere sul fenomeno
stesso, mentre gli animali non possono farlo razionalmente, ma agiscono d’istinto.
Tuttavia anche loro devono avere un’autocoscienza, altrimenti non saprebbero se
scappare o inseguire. Quindi, dobbiamo dedurre che la coscienza presuppone
sempre un’autocoscienza, più o meno chiaramente.
Anzi, dobbiamo dire che le due funzioni devono sempre
andare insieme, perché se un essere vivente fosse solo cosciente dell’altro
senza essere cosciente di sé, farebbe presto una brutta fine. Farebbe la fine
della gazzella appena nata, che non sa ancora di poter essere la vittima di un
leone. Ma le due forme di coscienza devono andare di pari passo, in qualsiasi
essere vivente.
Riassumendo, l'autocoscienza si sviluppa sulla base
della coscienza. Non possiamo essere consapevoli di noi stessi senza prima
essere consapevoli del mondo che ci circonda. E viceversa.
Il bambino appena nato non ha ben chiaro di essere un
individuo separato dall’ambiente. È ancora fuso con tutto. Il che evoca un
senso di unità primordiale, un legame indissolubile con l'universo e con tutto
ciò che esiste. Nei primi mesi di vita, il bambino non ha ancora sviluppato un
senso del sé distinto dall'ambiente circostante. Le esperienze e le emozioni
sono vissute in modo unitario, senza una netta separazione tra sé e gli altri.
Poi, con la crescita, il bambino inizia
gradualmente a differenziare sé dagli altri e a costruire una rappresentazione
mentale di sé stesso. Questo processo è influenzato da numerose variabili, tra
cui le interazioni con i caregiver, le esperienze sensoriali e lo sviluppo
cognitivo.
Quindi,
possiamo dire che il bambino appena nato vive in una realtà molto diversa dalla
nostra. Una realtà
in cui i confini tra sé e il mondo sono più fluidi, in cui le esperienze sono
vissute in modo più unitario e in cui la connessione con gli altri è profonda e
immediata.
L'autocoscienza
umana rappresenta un approfondimento della coscienza, un'ulteriore riflessione
su se stessi. È come se la coscienza fosse uno specchio che riflette il mondo
esterno, mentre l'autocoscienza fosse uno specchio che riflette lo stesso
specchio.
Forse è per
questo che in noi esiste sempre la nostalgia di quella fusione e l’impulso a
fonderci, di ritornare a essere tutto, e non un individuo separato.
Perduta l’unità
originaria, ci mettiamo a ricercarla, sia attraverso la fusione sessuale sia
attraverso l’amore e le droghe sia
attraverso un’interpretazione della morte come ritorno al tutto.
Ma, in quest’ultimo
caso, niente è sicuro. E rimane sempre il terrore dell’annullamento, del non
poter conservare la propria identità.
Anche se, in
fondo, il nulla e il tutto sono due aspetti della stessa cosa.
Comunque, nell’uomo,
lo sviluppo più chiaro di un’autocoscienza significa sia una scissione fra sé e
il mondo sia una scissione interiore in due funzioni: il soggetto che è
autocosciente e il soggetto che diventa oggetto di conoscenza.
Io dico
sempre, per chiarire il concetto, che è come essere due in uno. La coscienza,
in fondo, è questo “essere due persone in uno”, due entità che convivono nello
stesso corpo e che sono un po’ in disaccordo e un po’ in accordo. Insomma, c’è
tra i due una dialettica continua, dove l’uno controlla l’altro, talvolta lo
critica, ma non può farne a meno – come se ci fossero due gemelli siamesi.
Questo
dualismo fondamentale si riflette, secondo me, nel dualismo del cervello, nel
dualismo di tanti organi, nel dualismo della respirazione e nel dualismo del
Dna. Dualismo inevitabile perché noi nasciamo da due opposti (il maschio e la
femmina, il padre e la madre) che ci portiamo dietro per tutta la vita.
Correggetemi se sbaglio.
Noi siamo sì
una sintesi, un’unione, una saldatura – ma una saldatura in cui i due pezzi
sono uniti, ma pur sempre distinguibili e spesso in contrasto.
Se
aggiungiamo che l’unione forma una figura circolare e dinamica fra i due
opposti, abbiamo una contrapposizione universale, che riguarda ogni aspetto
della realtà, da quello fisico a quello mentale. Infatti, noi non possiamo
concepire uno dei due poli senza concepire anche l’altro, non possiamo provare
un sentimento o un’emozione senza provare i loro contrari.
L’uscita
dalla fusione originale e la nascita di un’identità hanno un prezzo da pagare.
Che, da quel momento, è la visione duale della realtà.
Quando ci
riferiamo allo stato fusionale originario, quando diciamo che in fondo gli
opposti coincidono, ci riferiamo all’origine delle cose, che non può non essere
unitaria. Prima le cose sono unite, poi si dividono – e si dividono in coppie uguali e contrastanti che io chiamo diadi.
La sfida
adesso è superare le diadi e, pur rimanendo separati, ritrovare l’unità perduta,
almeno a livello mentale.
Quello che
ci incoraggia è che esistono già esempi di funzioni duali unitarie. Per
esempio, quando parliamo di respirazione, vediamo benissimo che è composta da
due fasi contrastanti: l’inspirazione e l’espirazione. Ma questo forse è l’unico
caso di una funzione unitaria in cui abbiamo per esprimere la divisione nell’unione.
Però, non
abbiamo concetti che esprimano la dualità maschio/femmina , luce/buio, amaro/dolce,
bello/brutto, bene/male, ecc. Come li pensiamo, come li nominiamo in quanto
unità duale? Ci mancano i concetti pur sapendo che sono aspetti diversi di
fenomeni unitari. Tant’è vero che il modello maschio/femmina a un certo livello
fetale è proprio lo stesso.
Prendiamo la
contrapposizione di bianco/nero, cioè di colori. Noi sappiamo benissimo che
esistono tantissime gradazioni di nero e di bianco, tantissime gradazioni di
grigio.
Ma quante
sono?
Praticamente
infinite.
Potrebbe
sembrare contraddittorio, dato che si parla di soli due colori, ma in realtà la
scala di grigi che va dal bianco puro al nero assoluto è praticamente
illimitata. Anche se l’occhio
umano è in grado di distinguere un numero incredibilmente vasto di sfumature di
grigio, non possiamo quantificare esattamente questo numero, ed è chiaro che le
possibilità sono praticamente infinite.
Anche dal
punto di vista tecnologico, la rappresentazione digitale del bianco e nero
permette di definire un numero elevatissimo di livelli di grigio. Ad esempio,
una scala di grigi a 8 bit può rappresentare 256 tonalità diverse, mentre una
scala a 16 bit ne può rappresentare ben 65.536.
Quindi,
anche se possiamo definire delle scale di grigio standard (come quella a 256
livelli), la realtà è che le gradazioni possibili sono innumerevoli.
Un altro
aspetto interessante è che il bianco e il nero assoluti sono difficili da
ottenere in pratica.
- Il bianco più puro: È ottenuto quando tutta la
luce viene riflessa da una superficie.
- Il nero più puro: Si ottiene quando tutta la
luce viene assorbita da una superficie.
Tuttavia,
nella realtà, anche il bianco più brillante contiene delle tracce di colore e
il nero più profondo ha sempre una leggera luminosità.
In
conclusione, il bianco e
il nero sono due estremi di una scala continua che comprende un numero infinito
di gradazioni.
Perché ho
fatto questo discorso? Perché riguarda tutte le diadi. Per esempio, quante sono
le gradazioni fra bene e male o fra alto e basso? Praticamente infinite.
È per questo
che le diadi, come nell’antico Taoismo, vanno considerate oscillanti fra
infinite gradazioni.
Se prendiamo
ora la diade soggetto/oggetto, dobbiamo ammettere che anche qui devono esserci
tantissime gradazioni. Noi consideriamo le polarità come semplicemente duali,
mentre in realtà si manifestano in infinite gradazioni, dato che vanno
considerate in continuo movimento reciproco. Quindi, quando parliamo di
dualismo, usiamo un’astrazione limite.
Anche i
dualismo tra due polarità può avere infinite gradazioni.
Qui ci avviciniamo alla meccanica quantistica. La luce, alla base della percezione dei
colori, esibisce sia proprietà ondulatorie che corpuscolari. Questa dualità
potrebbe suggerire una natura intrinsecamente quantistica della percezione del
colore, anche se in scala macroscopica.
Inoltre, se
l'atto di misurare una proprietà quantistica può influenzare il sistema stesso,
analogamente, la nostra percezione del colore è un processo di misurazione che
coinvolge l'interazione tra la luce e i nostri recettori visivi.
Ma quel che
voglio concludere è che il termine “dualismo”, da me usato spesso, non deve
portare a credere che siano in gioco solo due polarità, bensì dinamicamente, molte
gradazioni di queste polarità, forse infinite.
La realtà è
molto più complessa delle nostre astrazioni e semplificazioni.
Questo deve applicarsi anche alla coscienza: ci devono essere infinite gradazioni di coscienza. E noi siamo ai primi livelli, appena al di sopra degli animali.