Tenere le distanze non è soltanto un atto di prudenza, ma un’arte sottile di posizionamento esistenziale. Non si tratta di sottrarsi o di fuggire, ma di trovare lo spazio giusto, il ritmo adeguato, il respiro necessario perché la relazione con il mondo e con gli altri possa compiersi senza soffocare né dissolversi. La distanza diventa così misura: un intervallo che custodisce il rispetto, che permette alla parola di non essere eccesso e al silenzio di non diventare vuoto.
In questa prospettiva, l’arte di tenere le distanze si intreccia con la teoria delle oscillazioni. Ogni esistenza è attraversata da un movimento pendolare: avvicinamento e allontanamento, presenza e assenza, intensità e quiete. Senza distanza non vi è oscillazione, e senza oscillazione non vi è vita autentica: il contatto continuo annulla il respiro, la separazione definitiva spegne la vibrazione. È nell’oscillare che si trova la possibilità di equilibrio, non come fissità immobile, ma come danza costante tra i poli.
Tenere le distanze, allora, significa imparare a modulare l’oscillazione: accogliere i momenti di vicinanza senza paura di perdere sé stessi, e accettare le fasi di lontananza come spazio fertile per il ritorno. L’arte di vivere non è scegliere una delle due polarità, ma abitare il ritmo che le unisce e le separa, mantenendo la distanza come strumento di libertà e la vicinanza come esperienza di comunione.
In questo modo la distanza non è freddezza, ma misura armonica: il punto in cui l’oscillazione non diventa frattura, ma respiro vitale.
L' arte di tenere le distanze, d'altronde, si conforma con le leggi di natura che si basano sempre su un' oscillazione dinamica tra due poli. Come nell' esistenza, così nella dinamica di tutti i rapporti, anche fisici.
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