Se una cosa è nata, ovviamente dovrà morire. Se entra all’interno
dello spazio-tempo di questo universo, dovrà uscirne. Ma dove va a finire e che
cosa c’era prima? Non possiamo dire che non c’era nulla, perché dal nulla non
può nascere nulla. E allora?
Quando pensiamo allo stato prima dell’essere, in effetti non
sappiamo più come definirlo. Le nostre parole, i nostri concetti dualistici non
ce lo permettono; è al di fuori del linguaggio e del pensiero.
Di solito noi gli diamo un nome (Dio, Brahman, Essere, Assoluto,
Eterno, Aldilà, Nirvana, ecc.), ma si tratta di termini convenzionali che non
ci spiegano nulla.
In breve il linguaggio è impotente. Dovremmo innanzitutto
trascendere tutte le coppie di opposti (Essere-nulla, Assoluto-relativo,
Vita-morte, Inizio-fine, ecc.), ma poi capiamo che ci mancano le parole.
Le Upanishad lo indicano come “Quello”. Quando esaurisci tutti i
concetti, ciò che rimane è Quello… “e tu stesso lo sei”.
Ma questo nome non significa niente, non è il nome di un Dio. È lo
stato che rimane dopo che hai scartato ogni prodotto del pensiero ed ogni possibile
stato.
Se cerchi uno stato che non nasca e non muoia, che non sia né essere
né non essere, che non abbia né un inizio né una fine, allora è “Quello”.
Ma, se “Quello” non è pensabile, come facciamo a dire che ci sia? In
effetti non possiamo.
Però, poiché noi siamo “Quello”, possiamo percepirlo dentro di noi.
Non si tratta di pensarlo come si pensa un oggetto qualsiasi, ma di scoprirlo
come un nostro stato, prima dell’essere e del non essere, prima della coscienza
stessa, prima della sofferenza e della felicità. Immergiamoci nella nostra
sensazione di essere e poi trascendiamola.
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