Nella Chandogya Upanishad, un saggio padre, Uddalaka Aruni, vuole
spiegare al figlio, Svetaketu, quale sia l’essenza ultima della realtà, l’ “essenza
sottile”. Prima cita l’esempio di un grande albero che, benché colpito,
continua a vivere. Se però la vita, ossia l’essenza sottile, l’atman lo abbandona, allora si secca
completamente e muore.
In effetti ogni cosa è “animata da quella essenza sottile, che è l’unica
realtà, che è l’atman. E tu stesso,
Svetaketu, lo sei.”
Il discorso poi si ripete con un frutto pieno di semi. Il padre
dice al figlio di tagliarlo. “Che cosa ci vedi dentro?” “Tanti piccoli semi.” “Tagliane
uno. Che cosa ci vedi dentro?” “Nulla, padre.”
Il padre allora gli dice: “Questa essenza sottile sfugge alla tua
percezione, ma è grazie ad essa che questo albero, per quanto grande, si
innalza verso il cielo. Credimi, figlio, essa è l’unica realtà, è l’atman. E tu stesso, Svetaketu, lo sei”.
La spiegazione prosegue. Il padre dice al figlio di buttare del
sale nell’acqua di un recipiente e di tornare l’indomani. Il giorno dopo il padre
gli dice: “Portami ora quel sale che hai buttato nell’acqua”. Il figlio
ovviamente non lo vede più perché si è sciolto. “Assapora un po’ quell’acqua
prendendola alla superficie. Com’è?” “È salata.” “Ora assaporala prendendola
dal basso. Com’è?” “È sempre salata.”
“Così pure, figlio mio, tu non afferri questa essenza. Ma essa è
presente dappertutto, è l’atman. E tu
stesso lo sei.”
Dunque l’insegnamento è chiaro: primo, ogni cosa, dalla più grande
alla più piccola. è espressione di un’unica essenza non percepibile ai sensi
esterni, e quindi anche ciascuno di noi è animato da quella energia.. Qui non
si tratta di adorare una divinità esterna, ma di ritrovare in sé il principio e
la forza della divinità che sta tanto al di fuori quanto dentro di noi.
Questo processo di ritrovamento o riconoscimento noi lo chiamiamo
meditazione. Si tratta di raccogliersi, di sentire al nostro interno l’essenza
sottile e di lasciarle lo spazio per lavorare dentro di noi.
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