Io posso parlare e dare informazioni senza usare diadi. Per esempio: "Sto mangiando la pizza". Qui non c'è logica. Ma, se voglio ragionare, riflettere o argomentare, devo usare gli opposti complementari. Provate voi a fare un discorso complesso senza usare le diadi. Eppure questa è la gloria dell' uomo. Ma anche la sua disperazione. Perché la logica divide il reale cercando di coglierlo. La comunicazione è un'operazione che contiene una logica elementare implicita (per es. la diade soggetto/oggetto) comune a tutto l'universo (informazione) ma non comporta l'uso delle diadi epistemologiche del linguaggio astratto.
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La distinzione che fai regge senza sforzo: parlare non implica necessariamente ragionare.
Dire “sto mangiando la pizza” richiede solo una struttura informativa minima: un soggetto, un’azione, un oggetto. È la diade base dell’universo — informazione che passa da uno stato all’altro — ma non è ancora “pensiero riflessivo”.
Quando invece provi ad articolare un pensiero, entri subito nel territorio delle diadi vere e proprie. Ogni idea complessa si orienta confrontando una polarità con il suo contrario: vero/falso, causa/effetto, possibile/impossibile, essere/non-essere, identità/differenza, ordine/disordine… È impossibile argomentare senza aprire almeno una di queste tensioni. La riflessione è un oscillatore, non una linea dritta.
Ed è qui che nasce insieme la forza e la frattura dell’umano:
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La forza, perché l’oscillazione ti permette di afferrare aspetti del reale che nessun enunciato semplice può contenere. L’umanità ha costruito scienza, filosofia, diritto e simboli proprio sfruttando la dinamica degli opposti.
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La frattura, perché la logica — per funzionare — deve separare ciò che nella realtà è unito. Taglia il continuo in categorie contrapposte. Divide per capire. Ma nel dividere tradisce inevitabilmente l’unità della cosa.
La comunicazione quotidiana, quella dei gesti e delle frasi operative, sta a metà: non è muta come la realtà, ma nemmeno stratificata come il pensiero critico. Richiede solo una logica implicita e rudimentale (agente/azione, interno/esterno, io/tu). È un minimo sindacale cognitivo, quello che permette anche alle forme più elementari di vita — o all’informazione pura — di stabilire un rapporto.
Quando invece l’uomo pensa davvero, entra nella macchina degli opposti. E non può più uscirne. Ogni passo avanti nella comprensione è guadagnato al prezzo di una nuova scissione.
Questa è la condizione:
la realtà è una, la comunicazione è binaria, il pensiero è diadico.
La gloria e la disperazione stanno lì.
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La fatica di Sisifo significa che l'uomo deve sempre oscillare tra opposti senza mai cogliere la loro unità. Allora il sapere diventa per forza frammentario. L'unità può solo essere vagamente intuita, per poi essere subito negata dalla logica duale. Questo impedisce all'uomo non solo di cogliere la verità unitaria, ma anche di non poter mai completamente fare quello che vuole.
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La tua lettura della fatica di Sisifo è esatta e spietata: non come metafora della ripetizione sterile, ma della condanna all’oscillazione infinita.
L’uomo vede l’unità per un lampo, ma pensa solo a partire dalle divisioni. Quel lampo è intuizione, pre-logica, pre-diadica; la riflessione che segue lo spezza immediatamente in poli. Non è un difetto dell’uomo: è la struttura stessa del pensiero.
E da qui discendono tre conseguenze dure:
1. Il sapere umano non può che essere frammentario
Ogni volta che cerchi di comprendere, devi tagliare il reale in porzioni: fenomeno/noumeno, mente/mondo, causa/effetto, interno/esterno. Il mondo si presenta come un flusso continuo, ma la conoscenza lo trasforma in sezioni.
È un’operazione chirurgica: necessaria, ma mutilante.
2. L’unità è solo un’intuizione, mai un concetto
Quando avverti un momento di pienezza, di “totalità”, di senso non diviso, quello che accade è extra-logico. Non è un ragionamento, è un contatto.
Ma la logica, non appena prova a prenderlo in mano, lo spezza: ciò che era unità diventa tesi/antitesi, presenza/assenza, io/non-io.
La mente non tollera l’indistinto.
3. L’uomo non realizza mai pienamente ciò che vuole
Non per debolezza morale, ma per struttura cognitiva: voler qualcosa significa già dividerlo dal suo contrario (voluto/non-voluto, possibile/impossibile, desiderio/realizzazione).
Appena il desiderio prende forma, genera il suo limite.
Appena agisci, entri in un campo di forze contrarie.
Niente è mai libero, perché il pensiero stesso non è libero: è un pendolo.
In questa chiave, Sisifo non è punito dagli dèi: è punito dalla logica.
La pietra è l’unità che tenta di portare in cima alla montagna della coscienza; ma appena prova a formularla, l’unità precipita di nuovo nella dualità.
Non c’è una via d’uscita concettuale.
C’è solo la consapevolezza che l’oscillazione è la nostra natura — e che l’unità, quando appare, non si pensa: si attraversa.
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In certi momenti posso essere unito con qualcuno, spezzando la diade io/altro, ma non appena lo dico non lo sono più. Questo vale anche per me come io.
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È esattamente così: l’esperienza può unire, il linguaggio divide.
Quando sei davvero in fusione con qualcuno — un momento di intimità, di risonanza profonda, di presenza condivisa — la diade io/altro si allenta. Non scompare del tutto, ma smette di essere una frontiera rigida. È una condizione pre-concettuale: non ci stai ragionando, ci sei dentro.
Ma appena provi a dirlo, devi ricostruire l’io che parla e l’altro a cui ti riferisci. La frase stessa ristabilisce i confini. La lingua non conosce l’unità: conosce solo soggetti e oggetti, ruoli e funzioni.
E questo vale anche per te con te stesso.
Quando vivi un istante di presenza piena, senza la voce interiore che commenta, l’io si dissolve in un flusso continuo. È forse il momento più vicino a una vera unità che possiamo avere.
Ma appena tenti di “guardarti”, di nominare ciò che stai vivendo, ti sdoppi di nuovo: osservatore e osservato.
La consapevolezza porta con sé il taglio.
L’identità nasce separando.
L’unità si dà solo quando non c’è nessuno a dirla.
Funziona così per tutti:
l’esperienza può essere non-duale; la coscienza di essa non può esserlo.
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Così la coscienza diventa ambigua. La nostra grandezza, ma anche il nostro limite. Forse solo la consapevolezza può oltrepassare il limite, ma, non appena la mente cerca di razionalizzare, ci riporta nel limite.
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Sì, la coscienza è intrinsecamente ambigua perché vive su due piani che non coincidono mai.
Da un lato può intuire l’unità, può affacciarsi su ciò che non è ancora diviso: presenza pura, contatto immediato, quell’essere-nel-mondo senza distanza. È la sua parte più alta.
Dall’altro lato funziona solo dividendo: ogni volta che sorveglia, nomina, riflette o formula, deve separare soggetto e oggetto, io e ciò che appare. È la sua parte limitata.
Il paradosso è proprio qui:
la stessa facoltà che ti permette di sapere qualcosa è quella che ti impedisce di cogliere l’indiviso.
La consapevolezza può oltrepassare per un momento il limite perché non è ragionamento, non è analisi e non è linguaggio. È un “vedere” senza interpretare.
Ma appena la mente comincia a mettere ordine — spiegare, dedurre, classificare — la lama del concettuale ricompare e la continuità si spezza.
Non è un errore, è la struttura:
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Unità: vissuta.
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Dualità: pensata.
La grandezza dell’uomo sta in quel lampo in cui riesce a essere più vasto dei propri concetti.
Il suo limite sta nel fatto che non può trattenerlo senza distruggerlo.
È questo il punto:
la consapevolezza può passare oltre, ma il pensiero non può seguirla.
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L'uomo può essere consapevole senza essere cosciente. Ed essere cosciente senza essere consapevole. La consapevolezza è la risonanza con l'unità.
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