martedì 30 aprile 2013

Dio e la creazione


Quando sento gli scienziati che ci spiegano che l'universo è nato da un gigantesco big bang, ossia da un'esplosione, mi sembra che il loro cervello ripeta gli stessi schemi della Bibbia: "...E la luce fu!" Poca fantasia - la dimostrazione che anche la mente scientifica ricorre a preconcetti ideologici. Non siamo ancora nella scienza; siamo nella vecchia mitologia. Ma c'è un piccolo particolare: manca Jahvè. Infatti in tutti questo immenso universo, in tutti questi corpi celesti desolatamente vuoti e inutili, manca l'alito dello spirito. A che serve questo scassatissimo baraccone, a che servono questi miliardi di pianeti e di stelle, tutti in preda a una furia violenta? Domanda: non si poteva fare qualcosa di meglio - magari di più contenuto ma di più intelligente? Tutto ciò sembra l'opera non di una mente divina ma di un apprendista stregone che non domina ancora la sua potenza. Un excessus mentis, uno che non riuscendo a stare in se stesso è esploso in mille pezzi, un pazzoide che non sa contenersi, un immenso coito. Ripeto: dov'è il senso, dov'è la sensibilità? Forse in questo fiore che sboccia? E, per far sbocciare un fiorellino, c'era bisogno di tutto questo sconquasso? No, le nostre idee sulla creazione sono ancora fantasie di bambini.



lunedì 29 aprile 2013

La società malata


Anche le società sono organismi, un po' come i corpi. E proprio come i corpi umani, se c'è un malessere generale, un malcontento, un'insoddisfazione, un'angoscia, subito ne risente qualche organo. Oggi l'Italia è in crisi - una crisi economica e anche morale. Ecco perché assistiamo a suicidi o a omicidi legati alla situazione generale. Queste persone che uccidono se stesse o che uccidono qualcun altro, apparentemente senza un motivo, sono gli organi malati dell'organismo che soffre.
Per altri motivi, anche gli Stati Uniti sono in crisi. Ed ecco che la patologia sociale si sfoga in stragi che non sembrano avere una giustificazione. Qualcuno si mette a sparare e a uccidere persone che non conosce. In realtà si tratta degli organi più fragili di un'intera società malata. Sono i punti di cedimento, presenti in tutte le società umane, dalla famiglia alle nazioni.
Come fare a uscirne? L'intera società deve prendere coscienza del suo stato di malattia. E perché ciò sia possibile, tutti devono guardarsi dentro.

Psiche e soma

Importante nelle tecniche di meditazione è riuscire a stabilire un collegamento tra i pensieri e il corpo. Sappiamo che ogni emozione ha un riflesso fisico; la rabbia, l'ansia, la paura, ecc. hanno caratteristiche ripercussioni sul ritmo del respiro, sui visceri, sulla pressione sanguigna e quant'altro. E questo lo riconosciamo tutti. Ma le ripercussioni esistono anche per i pensieri. Certe idee scatenano senza che ne accorgiamo reazioni sottili di rabbia, di odio, di fastidio, di avversione e, ovviamente, dei loro contrari. Noi dovremmo essere così attenti da non farcele sfuggire - e dal porvi rimedio. Porvi rimedio significa individuare prima i pensieri nocivi e poi cercare di distogliere da essi l'attenzione. Percepire il correlato somatico di un pensiero consente di evitare di cadere in stati d'animo negativi e, magari, di utilizzare a nostro vantaggio i pensieri e le emozioni positive.

giovedì 25 aprile 2013

La povertà secondo Gesù


Gesù si è sempre occupato dei ricchi e dei poveri. Essendo un poveraccio aveva un'avversione istintiva per i ricchi, un'avversione che raggiunge punte insospettabili in un uomo che era venuto a predicare l'amore verso il prossimo, ed è seconda soltanto a quella per i farisei. «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra ricompensa. Guai a voi che ora siete sazi, perché soffrirete la fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete tristi e piangerete» (Lc 6, 24-25). Questa è la logica di Gesù: chi ha qualcosa sulla terra, chi ha già qualche consolazione, la pagherà nell'aldilà. Viceversa, chi non ha nulla, chi è povero, chi ha fame, chi soffre, riceverà una grande ricompensa. «Beati voi, poveri, perché il regno di Dio è vostro. Beati voi che ora avete fame, perché Dio vi sazierà. Beati voi che ora piangete, perché sarete felici [...] Rallegratevi, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli» (Lc 6, 20-23). In effetti, se «là dove sono le nostre ricchezze, lì è il nostro cuore», è vero anche il contrario: là dove è il nostro cuore, lì è anche il nostro vero interesse. La ricchezza rende dunque impossibile una reale «conversione» del cuore, ossia una dedizione totale a Dio. Su questo punto Gesù è drastico: non prevede vie di mezzo. «Non si possono servire due padroni: o si odierà l'uno o si amerà l'altro, oppure si preferirà l'uno e si disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e Mammona» (Mt 6, 24). Non è un caso che Mammona (il denaro, la ricchezza, il potere) venga contrapposto a Dio. Nei fatti, esso è il Dio di questa terra, ovvero ciò cui gli uomini dedicano la maggior parte del loro interesse e dei loro sforzi. Per sapere in quale dio crede un uomo, basta vedere a che cosa dedica più energie. Ecco perché Gesù invita alla rinuncia: «Vendete tutto ciò che avete e datelo in elemosina: procuratevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro in cielo, dove i ladri non arrivano e la ruggine non consuma» (Lc 12, 33). «Chi non rinunzia a tutto ciò che ha, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33). Non si tratta quindi di una rinuncia da poco, di rinunciare soltanto a delle cose. «Mammona» è in realtà il simbolo di tutto ciò che distrae l'uomo da Dio. Come abbiamo visto nel discorso sugli uccelli che non seminano e non mietono e sui gigli che non filano, anche la comune attività lavorativa è per Gesù un fattore negativo. I ricchi, nei Vangeli, non sempre hanno colpe specifiche. Prendiamo per esempio la parabola di Lazzaro:
«C'era una volta un uomo molto ricco che aveva vestiti lussuosi e tutti i giorni faceva grandi banchetti. Vicino alla sua porta giaceva un mendicante di nome Lazzaro che era coperto di piaghe e che aspettava di sfamarsi con gli avanzi della mensa di quel ricco. Perfino i cani venivano a leccargli le piaghe.
«Un giorno il povero morì e gli angeli lo portarono in cielo, accanto ad Abramo. Poi morì anche il ricco e fu sepolto; finì all'inferno tra mille tormenti. Sollevando lo sguardo, vide in lontananza Abramo e Lazzaro che era con lui. Allora si mise a gridare: «"Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro a intingere la punta di un dito nell'acqua e poi a bagnarmi la lingua, perché queste fiamme mi bruciano". «Ma Abramo gli rispose: «"Figlio mio, ricordati che in vita hai già ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro ha ricevuto i suoi mali; ora, invece, lui è felice e tu soffri. Per di più, da lì a qui c'è un grande abisso: chi volesse passare da noi a voi, non potrebbe farlo; e nessuno di voi potrebbe venire da noi [...]"» (Lc 16, 19-26).
La spietatezza della giustizia divina viene così giustificata: è vero che il ricco non ha commesso attivamente il male, ma ha scavato fra sé e gli altri – e quindi fra sé e Dio – quell'«abisso» che ora lo ostacola. In questa parabola, tuttavia, il contrasto fra povertà e ricchezza è stridente, e grida veramente vendetta. Però non bisogna farsi fuorviare: la colpa dei ricchi non è quella di non fare beneficenza, ma semplicemente di essere ricchi.
La ricchezza, per Gesù, è un male in sé. Un'altra parabola lo spiega molto bene: «Un uomo importante chiese un giorno a Gesù: "Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?" E lui gli rispose: "Perché mi chiami buono? Di buono c'è solo Dio. Tu conosci i comandamenti: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non dire il falso, rispetta tuo padre e tua madre". «L'uomo replicò: "Ma tutto ciò io l'ho osservato fin da giovane!" « A questa risposta, Gesù disse: "Una sola cosa ti manca ancora: vendi tutto ciò che possiedi, distribuisci il ricavato ai poveri e così avrai un tesoro in cielo. Poi vieni e seguimi". «Udite queste parole, l'uomo si fece molto triste, perché era assai ricco. E se ne andò» (Lc 18, 18-23). Come si vede, questo giovane ricco non ha nessuna colpa; anzi, è migliore di tanti altri, poveri compresi. Il suo unico difetto è di essere ricco.
La ricchezza viene dunque vista come un ostacolo alla salvezza. Viceversa, il povero – solo in quanto povero – si merita la salvezza. L'odio di Gesù per i ricchi non lascia loro quasi nessuno scampo. E, in realtà, non lascia scampo quasi a nessuno. Perfino i discepoli se ne accorsero, così com'è documentato dal proseguimento della precedente parabola:
«"In verità vi dico che difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Vi assicuro che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio". A queste parole i discepoli si rattristarono molto e domandarono: "Ma, allora, chi si potrà salvare?" Gesù li guardò e rispose: "Per gli uomini è impossibile, ma per Dio tutto è possibile"» (Mt 19, 23-26). Anche Gesù, dunque si rende conto di chiedere un po' troppo. Tuttavia non cede di un palmo. Il suo motto sembra essere: o tutto o niente. Pietro, in quell'occasione, prese la parola e disse: «Noi abbiamo abbandonato tutto per seguirti. Che cosa otterremo in cambio?» E Gesù ribadì: «Quelli che, per causa mia, avranno lasciato fratelli, sorelle, padre, madre, case o campi, riceveranno cento volte di più e avranno in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29). La rinuncia che egli chiede è insomma totale. Tant'è vero che giunge anche a chiedere di «rinunciare a se stessi» (cf. Mt 16,24).
Non bisogna però farsi ingannare dalla retorica. Alcuni apostoli erano sposati e non rinunciarono certo alle mogli. E lo stesso Gesù, pur non possedendo nulla, veniva mantenuto dai beni altrui. Resta il fatto che, contro i ricchi, il Nazareno, forse ricordandosi delle sue umili origini, scatena tutta la sua violenza verbale. Tuttavia la tesi di Gesù apparve troppo semplicistica perfino agli evangelisti, se è vero che Matteo sentì il bisogno di chiarire nel discorso sulle «beatitudini»: «Beati i poveri in spirito [...]». In tal modo, la povertà non è più il semplice fatto di non possedere niente, ma si trasforma in una qualità morale, ossia nella capacità di superare il senso di attaccamento e l'egoismo.
Anche Gesù, del resto, finì per riconoscerlo, mitigando così, almeno in questo caso, il suo assolutismo. Episodio decisivo fu quello del ricco Zaccheo:
«Entrato nella città di Gerico, Gesù la stava attraversando. Qui c'era un uomo di nome Zaccheo, ricco capo dei pubblicani, che voleva vederlo, ma, essendo basso ed essendoci molta folla, non ci riusciva. Allora corse avanti e salì su un albero, in un punto in cui Gesù sarebbe passato e dove avrebbe potuto vederlo.
«Giunto sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Scendi subito, perché oggi devi ospitarmi a casa tua." Zaccheo scese in fretta, colmo di gioia.
«Vedendo queste cose, la gente si mise a criticare Gesù: "E andato a casa di un peccatore!" Ma Zaccheo, in piedi davanti al Signore, gli disse: "Signore, dono la metà dei miei beni ai poveri e, se ho imbrogliato qualcuno, gli restituisco quattro volte tanto".
«Allora Gesù rispose a Zaccheo: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa: anche tu sei figlio d'Abramo. Il Figlio dell'uomo è venuto proprio a cercare e a salvare chi si era perduto"» (Lc 19, 1-10).
Noi non sappiamo se, alla fine dell'operazione, al ricco Zaccheo sarà rimasto qualcosa, ma è da presumere che egli non abbia rinunciato proprio a tutto.
La condanna della ricchezza è comunque senza mezze misure. Vivendo in una società di pesante sfruttamento, egli pensa che dietro ogni ricco vi sia iniquità ed egoismo. Viceversa crede che il povero sia un buono. «Dio ha scelto i poveri nel mondo per farli diventare ricchi di fede e per far loro ereditare il regno» troviamo scritto in una lettera apostolica inclusa nel Nuovo Testamento (Gc. 2,5).
Questa convinzione era certamente condivisa da Gesù. Egli s'illudeva che i poveri sarebbero stati i realizzatori del regno di Dio. In realtà, nelle vicende evangeliche, i poveri non appaiono portatori di particolari valori religiosi. I miserabili, gli storpi, i ciechi, i disoccupati, i lebbrosi, i pazzi e gli indemoniati non sono migliori degli altri. Accanto a servitori spietati, fattori infedeli, sacerdoti egoisti e scribi ipocriti, troviamo centurioni caritatevoli, pubblicani convertiti, farisei pieni di fede, padroni giusti e operai oziosi. Tutto sommato, il popolino diseredato non fa mai una bella figura: si fa abbagliare dal potere di Gesù, ma non ne capisce il messaggio. «Avete occhi, ma non vedete; avete orecchi, ma non udite». Questa stessa folla che è pronta ad acclamarlo quando compie prodigi, è anche pronta ad abbandonarlo quando lui diventa uno di loro, spogliato e umiliato. Anzi, sarà proprio questa gente a scegliere Barabba al posto di Gesù. E sarà un ricco membro del Sinedrio, Giuseppe d'Arimatea, ad avere il coraggio, mentre tutti i discepoli sono nascosti, di andare a chiedere a Pilato il corpo del giustiziato. I veri protagonisti dei Vangeli non sono mai i miserabili, che appaiono semplici comparse sullo sfondo, ma una classe intermedia che appoggia o contrasta Gesù.
Già ai primi cristiani apparve evidente che povertà e sofferenza non rendono migliori gli uomini. La vera «povertà in spirito» non è appannaggio di nessuna classe sociale. Anzi, è facile che la miseria soffocante, la sofferenza senza speranza, la sventura irrimediabile, non avvicinino affatto gli uomini al regno di Dio. [Da L'altro Gesù].
Quello che manca completamente al messaggio cristiano è l'idea di una giustizia retributiva da attuare, non nell'aldilà, ma qui e subito. Perché i ricchi devono essere ricchi e i poveri devono essere poveri - chi lo ha stabilito? E perché il cristiano non si fa propugnatore attivo di una redistribuzione dei beni, qui sulla terra? Non basta un po' di carità ad assicurare giustizia. È noto che, alla fine del secolo scorso, in America Latina, si diffuse anche tra i cristiani l'idea di una "teologia della liberazione" per assicurare a tutti una giusta retribuzione; idea che del resto apparteneva già al socialismo e al comunismo. Ma gli ultimi due Papi hanno strenuamente combattuto questa idea rivoluzionaria, cancellando ad uno ad uno i preti che la sostenevano. Ecco perché il cristianesimo non è credibile quando parla di povertà e di ricchezza; non fa in sostanza nulla per migliorare le cose, per combattere il capitalismo di rapina e le enormi differenze sociali. Si limita a fare un po' di carità (che non ha mai risolto il problema di base) e a beatificare i poveri nell'aldilà. Troppo poco. La giustizia deve essere assicurata innanzitutto qui sulla terra. E chi non lotta per farlo è di fatto corresponsabile delle scandalose condizioni in cui si trovano i poveri in questo mondo. Anche l'idea di san Francesco di farsi povero tra i poveri, lui che era ricco, è completamente sbagliata. Non è il ricco che deve farsi povero; è la società che deve assicurare ai poveri i giusti mezzi di sussistenza.

giovedì 18 aprile 2013

Il rilassamento come pre-meditazione


Riuscite mai durante la giornata a rilassarvi veramente? Non semplicemente a dedicarvi a un hobby (che è un'attività distraente), ma a rilassare completamente il corpo e la mente.
Riuscite a trovare un po' di tempo per starvene da soli, in silenzio, senza mogli, fidanzate, figli, radio, telefonate, televisione, ecc.? Ora, ammesso che possiate trascorrere un'ora senza interferenze o impegni, come vi rilassate? Rilassare il corpo è relativamente semplice: basta mettersi in una posizione comoda, per esempio su una poltrona o su un letto, e non muoversi. Il respiro si calma, il cuore rallenta, la pressione diminuisce, ecc.
Ma la mente? Riuscite a rilassarla? Riuscite a farla stare immobile come il corpo? Non è facile, perché la mente lavora sempre: ricordi, conversazioni interiori, progetti, speranze, riflessioni, rimorsi... come fermarli?
In realtà, se state ben fermi e rilassati con il corpo, anche la mente incomincia a rallentare. Provate per un po' a seguire il respiro: osservate come si calma. E calmatevi anche voi.
A questo punto, di solito, incomincia un po' di sonnolenza. Lasciate fare, lasciate andare. La sonnolenza è un effetto del rilassamento fisico e mentale. Poiché in qualche misura siamo tutti stanchi, poiché tutti dormiamo poco o male, questo tipo di sonnolenza è positivo; è voluta dall'organismo, fa bene.
Lasciatevi andare. Semmai, ad occhi chiusi, concentratevi sui punti del corpo che sentite più tesi (gambe, braccia, faccia, mascella...) oppure su un punto visivo davanti a voi, in uno spazio che va dalla radice del naso alla fronte.
Se nella stanza c'è luce, vedrete punti o altri segni luminosi che cambieranno forma, colore, posizione e dimensione. Osservateli, ma lasciateli cambiare e scomparire. Guardate lo spettacolo delle luci, e basta.
Ogni tanto, ritornate con l'attenzione al corpo o al respiro.
Il rilassamento può essere interrotto da suoni provenienti dall'esterno, che vi colpiranno sfavorevolmente. Voi ritornate alla sensazione di rilassamento o mettetevi dei tappi nelle orecchie.
Se siete stanchi, vi assopirete sempre di più. Notate come a questo punto si riducano anche i pensieri: a volte attraversano la mente come meteore. Ma poi si diradano.
Lasciateli passare e andate avanti. Probabilmente schiaccerete un pisolino. Va benissimo.
Quando emergerete dal sonno, rendetevi conto di due cose: prima, lo stato di perfetto rilassamento del corpo, del respiro, del cuore (se misurate la pressione scoprirete che è diminuita) e, seconda cosa, siete stati senza pensieri per un po' di tempo. Se non avrete sognato, la vostra mente avrà raggiunto uno stato di attività minima. Avrete raggiunto il vuoto mentale.
Poiché la mente era inattiva, non vi ricorderete nulla di che cosa è accaduto in quei minuti. Il sonno è come una morte temporanea - che non è per niente male. Anzi, l'arresto della mente vi ha portato altri benefici. Vi sentite in forma, siete distesi e vedete le cose con più chiarezza. Capite così che cosa significhi rilassare la mente: è questo lasciar andare pensieri, ricordi, preoccupazioni, fantasie, ecc.
La mente si svuota come la cache di un computer e, subito dopo, funziona molto meglio: è più pronta e più lucida.
Vi consiglio di seguire questo metodo, perfettamente naturale, per capire che cosa sia la meditazione e quali siano i suoi benefici - i benefici di un arresto o di un riposo della mente. Se non altro, ristora il corpo, placa la mente, fa vivere meglio.
Poi, un giorno, potreste arrivare a non assopirvi più, ma a mantenere desta l'attenzione durante l'esercizio. Allora entrereste nella meditazione vera e propria.

PS (1). La misurazione della diminuzione della pressione sanguigna è la dimostrazione scientifica del potere del rilassamento del corpo e della mente, e quindi della meditazione. Non dimentichiamoci che la "pressione" è sì un fatto fisico, ma anche un fatto mentale; e che la pressione mentale, cui siamo soggetti durante il giorno, si traduce in uno stress dell'intero organismo psico-fisico. La mente non è separata dal corpo.
PS (2). Fare il "vuoto mentale" non è, come molti credono, una forma di rincretinimento, ma il miglior metodo per fortificare la mente. Il vuoto mentale ricorda la morte - e dà alla morte un altro significato: quello di un reset del corpo-mente in vista di una ripresa futura.
PS (3). La meditazione orientale, rivisitata da noi occidentali, non è più una pratica esoterica, ma tende a trasformarsi in una pratica a cavallo tra psicoterapia e spiritualità.  Naturalmente qui siamo soltanto nell'anticamera della meditazione.

lunedì 15 aprile 2013

La meditazione come distacco


La meditazione può essere vista come una forma di distacco graduale. Prima ci si distacca dal tempo del divenire per entrare nella dimensione di uno stato senza tempo, ossia dell'istante presente. Poi ci distacca dal dialogo e dalla conversazione interiore, ossia dalle rimuginazioni, dai pensieri, dai ricordi, dalle speranze e dalla fantasie, per entrare nello stato del silenzio. Quindi ci si distacca dai sensi per concentrarsi soltanto sulla respirazione o su un oggetto di meditazione. In seguito ci si distacca anche dalla respirazione o dall'oggetto dimenticandosi completamente del corpo. Da ultimo ci si distacca anche dal soggetto, entrando nella dimensione della liberazione dai limiti dell'ego.
Distacco significa superamento. Infatti, ad ogni stadio, si supera uno dei limiti della condizione umana (divenire, dialogo interiore, cinque sensi, corpo ed ego). La meta è assumere una posizione di superamento della comune condizione umana e giungere ad una posizione felice di consapevolezza senza tempo e senza mente egoica.
Dimenticare il corpo, dimenticare la mente, dimenticare perfino di essere un io.
Naturalmente si tratta in principio di uno stato raggiungibile solo nel periodo di meditazione. Ma, a lungo andare, diventa un modus vivendi, ossia non-reattività abituale, imparzialità, chiarezza mentale, indipendenza dal giudizio comune, equanimità.
La meditazione è dunque fondamentale per vedere il mondo e se stessi con la massima obiettività o, come si diceva una volta, per vedere le cose così come sono.




Non-reattività


In meditazione è fondamentale non reagire istintivamente. Questo non significa non essere spontanei, ma non cedere al condizionamento sociale e naturale, che vuole che a determinati eventi seguano sempre determinate reazioni. Occorre interporre, tra stimolo e risposta, un intervallo di riconoscimento. Il riconoscimento deve rispondere alla domanda: "Che cos'è questo?" Ossia che cos'è ciò che provo e qual è la reazione che mi viene sollecitata in automatico?" Subito dopo sorge la seconda domanda: "È giusta la reazione che mi viene sollecitata? Mi fa bene? È conveniente? Mi migliora o mi peggiora? È qualcosa di nuovo o è la solita reazione?"
Perché non dobbiamo dimenticarci che le reazioni che ci vengono sollecitate sono vecchie di migliaia di anni risalendo addirittura a quando eravamo scimmie nella foresta. E noi che cosa vogliamo essere? Delle marionette guidate da forze ancestrali o persone nuove, padrone di se stesse? Ecco il punto: le reazioni istintive non sono affatto "nostre": non partono da noi stessi, ma da una "centrale" che non è nelle nostre mani.
Quando rispondiamo a una sollecitazione con uno scatto d'ira o con una reazione di paura, siamo semplicemente marionette in balia di una forza che ci sovrasta, di una forza che persegue i suoi obiettivi - che non è detto siano i nostri. Questa uscita dalle consuete reazioni di causa-effetto è indispensabile per liberarsi dai condizionamenti collettivi della natura o della società, diventando finalmente padroni di noi stessi. È l'acquisizione di una individualità che paradossalmente ci porta ad essere più distaccati dal nostro ego e saggi.

Scopo della meditazione è creare un uomo nuovo, non ripetere vecchi schemi di comportamento, ormai superati.
Dunque, bisogna osservarsi nella vita quotidiana. E intervenire. La meta è essere più consapevoli, più distaccati, più imparziali, più calmi, più equanimi. Un uomo nuovo, appunto.

mercoledì 10 aprile 2013

L'io e il mio: il valore dell'ego



Da quando nasce a quando muore l'uomo pensa di essere un io. Io sono Tizio, io sono Caio, io sono Sempronio, ecc. O, per meglio dire, quando nasce, il neonato non sa ancora di essere un io e non si pone nemmeno il problema. Ma i suoi genitori stanno ben attenti: immediatamente lo battezzano, cioè gli danno un nome. Poi gli insegnano a parlare - e la prima cosa che gli insegnano è di essere un io: io sono Mario, io sono Francesco...
Le nostre lingue ci dicono che ogni frase deve incominciare con il pronome "io", "tu", "lui", ecc. E questo si insegna nelle famiglie e nelle scuole. Si racconta al bambino la sua storia e gli si dice chi è, di chi è figlio, a quale tradizione,a quale cultura, a quale storia o a quale nazione appartiene. Infine gli si assegna una carta d'identità. Così l'individuo sa chi è e, da quel momento, dice anche "questo è mio", questo è "tuo", ecc. Insomma dal senso dell'io nasce il senso del mio - si tratta pur sempre di proprietà: questo sono "io" e questo è "mio". Per la legge, non è concepibile che non esista un io, un'identità. Oltre ai documenti si assegna anche un codice fiscale e mille altri documenti del genere che ci diranno chi siamo e che cosa è nostro.
Per il mondo non è ammissibile che uno non sappia di essere un io; se non lo sa, viene messo in un manicomio. È certamente un alienato, un anormale. Ma non basta. Se qualcuno entra nella vita religiosa, subito gli viene assegnato un altro nome. Un monaco o un Papa devono cambiare nome. Cambiano nome per segnalare che hanno cambiato identità. Hanno cambiato identità, però non hanno perso l'identità: sanno benissimo chi sono. Non c'è nessuna religione che ti tolga l'identità, che ti dica che non sei nessuno.
Il senso dell'io e del mio è il fondamento del nostro essere nel mondo. Non ci basta essere, dobbiamo essere un io, dobbiamo essere delimitati, confinati in un io - e in un io definito, definibile, in modo inequivocabile. Se entrate in Rete dovete avere un'identità e, quando entrate in un sito, vi viene chiesto di identificarvi o comunque venite identificati in modo sicuro, magari scegliendo nickname e password.
Il nome è fondamentale. L' "io sono" è fondamentale. Il Dio della Bibbia, non appena apre bocca, dice. "Io sono". Io sono colui che è, il mio nome è Javeh o qualche altro nome.
La nostra paura atavica è di non essere un io, di non essere riconosciuti o amati. Se non veniamo riconosciuti da qualcuno, se non veniamo amati dai genitori, ne portiamo una ferita per tutta la vita. Ma ogni momento è scandito dalla paura di non essere, che per la società diventa paura di non essere qualcuno. Lei non sa chi sono io. All'identità personale viene aggiunta l'identità sociale, quella del ruolo rivestito nella vita. E ogni momento è contrassegnato dalla paura di non essere più un io, di morire. Che cos'è infatti la morte se non lo stato in cui non si è più un io e neppure si è? Questo è il massimo degli orrori, insopportabile per l'ego.
Nell'esistenza ogni ferita all'ego provoca un'immediata reazione. Che cos'è un'offesa, un'ingiuria se non un'aggressione al tuo ego? Tu ti credi intelligente ma sei un deficiente. Tu ti credi una persona importante, ma non sei nessuno. Ecco, non essere nessuno è la massima offesa.
Il confinamento dell'essere in un io è come la nascita di un pianeta, con tutti i suoi satelliti. Da una nebulosa a poco a poco si condensa qualcosa e quel qualcosa assume una fisionomia "solida", concreta, ben definita.
Eppure, eppure... qualche uomo straordinario dice anche che l'ego, con tutto l'egoismo che inevitabilmente comporta, è il problema di fondo, è il male di fondo. Gesù, per esempio, sostiene che per farsi suoi seguaci, bisogna rinunciare a ogni cosa, anche a se stessi; e tutta la sua predicazione si rivolge a combattere l'egoismo, l'egocentrismo. Quando parla di amore indica proprio questo: la perdita del proprio ego. Io e gli altri siamo la stessa cosa. D'altronde, quando ami o quando fai l'amore, per un po' perdi proprio il tuo confinamento in un ego e ti apri ad un altro. E non ti trovi male. Ma poi ti limiti ad assimilare anche quest'altro nel tuo io: anche il tuo amore diventa "tuo", una parte di te.
Il buddhismo, che è la religione più radicale e più profonda di tutte, aggiunge qualcosa di unico. Mentre le altre spiritualità ti assicurano che il tuo fondamento è un "ego trascendentale", un ego divinizzato, il divino confinato in te, il Buddha sostiene che non esiste nessuna anima, anzi che l'illusione prima dell'uomo è proprio quella di essere un ego eterno, un io che sopravvive alla morte. Mentre tutti cercano di assicurarsi un buon posto nell'aldilà, un'anima imperitura, magari di fianco al Padreterno, e accumulano beni (immateriali) come le buone azioni, le preghiere, le confessioni, le penitenze, ecc, l'illuminato buddhista ti dice che devi liberarti prima di tutto di questo desiderio, di questa illusione, di questa presunzione. La suprema beatitudine non è essere eterni ma dismettere la pretesa di essere; la vera felicità è la cessazione di sé. Tre sono le presunzioni da cui devi liberarti: "Io sono migliore di qualcuno", "io sono peggiore di qualcuno" e "io sono uguale a qualcuno". E infine devi liberarti del tuo stesso ego, devi giungere alla tua stessa estinzione: ecco che cos'è il nirvana. Questa sì che una vera dieta dell'anima, una vera umiltà! Ma non finisce qui: l'illuminato deve arrivare a considerare se stesso, il proprio io, come un processo impersonale.
Agire impersonalmente. Chi ci riesce? Forse nessuno. Ma il merito di questa linea di pensiero è di mettere in dubbio tutte le nostre certezza acquisite, il nostro egocentrismo, le nostre paure, i nostri successi. Forse sbagliamo tutto. Forse un successo dell'ego è una sconfitta spirituale; è un passo indietro anziché un passo avanti nel nostro processo evolutivo. Forse siamo tutti vittime della nostra convinzione egoica. Forse è davvero meglio essere un po' meno ego-centrati.

lunedì 8 aprile 2013

La povertà rende liberi?


Guarda caso, nella crisi economica che ci impoverisce tutti, ecco che qualcuno fiuta il vento e si mette ad esaltare, francescanamente, il valore della povertà.
Ma la miseria non ha mai reso libero nessuno; al contrario, imprigiona.
La povertà di cui parlano gli uomini spirituali non ha niente a che fare con il conto in banca, ma con la cessazione dell'arroganza e dell'egocentrismo. È povertà di ego.
Diciamolo ai nostri palloni gonfiati... politici, economici e religiosi.

L'autorità della Chiesa


Papa Francesco ha ammesso che, sì, la Chiesa non si è fatta sentire negli anni della spaventosa dittatura argentina. Ha taciuto - e si sa  che chi tace acconsente. Si tratta di un vecchio vizio: non prendere mai posizione contro i dittatori, anzi riservare loro funerali religiosi. Lo ha fatto anche negli anni del nazifascismo e con tutte le dittature sudamericane.
Non si tratta però solo di viltà. È qualcosa che appartiene al DNA della Chiesa. La religione cristiana ama l'Autorità e l'Autoritarismo. E trova affinità con tutte le dittature del mondo. In fondo, se si concepisce Dio (e la Chiesa) come l'Autorità suprema, ci si trova subito d'accordo con i vari dittatori. Lo diceva san Paolo: l'autorità, anche quella terrena, viene da Dio...

domenica 7 aprile 2013

Esiste un'anima? La verità del Buddha


Su questo argomento, l'uomo che ha visto più lontano è certamente il Buddha. Egli ha capito che non esiste alcuna essenza ultima: la realtà è un'immensa bolla di sapone. Ma, allora, quelli che ci hanno parlato di un' "anima" hanno sbagliato tutti? Diciamo che non sono andati tanto a fondo nel mistero delle cose.
L'anima esiste - e a lungo: per parecchie esistenze. Ma non è la meta ultima. La realtà ultima è la cessazione della tensione di esistere, la fine della sofferenza di essere. Il vero paradiso, la vera liberazione, il vero sollievo, la vera felicità, la fine dell'attaccamento, la fine dell'illusione.... è la cessazione del sé.
Esistere, venire all'essere è sofferenza. Cessare la brama di essere (non semplicemente morire) è la felicità.
Gli uomini non capiscono questa verità, perché sono dominati dalla febbre di essere, dalla febbre dell'ego - una febbre talmente potente da non terminare neppure con la morte del corpo. Questa febbre si mantiene da una vita all'altra, da una dimensione all'altra, finché non si spegne come una candela. Una candela si spegne, cioè non "arde" più, quanto si esaurisce la cera che la costituisce.
La cera è la brama di essere, di non-essere, di divenire, di confinarsi in un ego.
Il paradosso del Buddha è che, mentre noi abbiamo dubbi sulla sopravvivenza da una vita all'altra, lui ne è sicuro. Qualcosa, che non è un'anima eterna (ma ci assomiglia a lungo), si trasmette da una vita all'altra.
Che cosa fa terminare la cera della candela? La consapevolezza acquisita e convinta che il desiderio di essere è sofferenza, che non esiste una essenza ultima e che l'intero universo è solo una costruzione di una mente-corpo, una mente-corpo che nasce dal nulla e che è - come direbbe la fisica quantistica - una fluttuazione del nulla.
Per capire queste idee, bisogna aprire la mente. Diceva Einstein: "La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre".

giovedì 4 aprile 2013

La vera meditazione


Va bene fare meditazione dieci minuti o mezz'ora al giorno. Ma il resto della giornata? Se nel resto della giornata continuiamo a battagliare, a chiacchierare, ad aggredire e a reagire nei soliti modi, quella mezz'ora serve a ben poco. Se gli effetti della meditazione non penetrano nel resto della giornata, non si andrà molto lontano. Bisogna invece a poco a poco modificare la propria esistenza e i rapporti con il mondo, fino a condurre una vera vita meditativa. Il che non significa contemplare tutto il giorno il proprio ombelico, ma comprendere a fondo e adottare i valori della meditazione - che sono la quiete mentale, la pace interiore, la calma e la chiarezza mentale.
Al di là della pratica formale, la vera meditazione è lasciar cadere le chiacchiere interiori, è adottare la consapevolezza silenziosa del momento presente e permanere nell'equilibrio e nella chiarezza mentale. Il termine "illuminazione", al di là delle rappresentazioni mitologiche e delle tecniche particolari, significa vedere con chiarezza noi stessi e il mondo. E non si può vedere con chiarezza se non si sta in silenzio.
La gente parla per esprimersi e continua a farlo anche dentro se stessa, dividendosi, frammentandosi e confondendosi. Ora, proviamo a stare in silenzio per osservare tutto ciò, per comprendere.

Le donne nel cattolicesimo


La gente si accontenta di chiacchiere - e i credenti anche di meno: di gesti. Il nuovo Papa è uno che fa piccoli gesti nuovi e anche discorsi semplici semplici, tipici di un cristianesimo delle piccole cose, anzi delle minuzie, ma mai di vero rinnovamento. Per esempio, parla bene delle donne: dice che il cristianesimo deve loro molto. In effetti, le "pie donne" rimasero quando gli apostoli maschi se la squagliarono per la paura e furono le prime a parlare di Cristo risorto. Ma come sono state ricompensate? Devono fare le serve dei preti, devono accontentarsi di lavori umili e, naturalmente, non possono aspirare a diventare sacerdoti. Una bella riconoscenza! Crederemo ai Papi solo quando faranno vere riforme, non gesti esteriori o chiacchiere "francescane".
Purtroppo, le religioni sono prigioniere delle loro tradizioni. Il che dimostra che sono tutte condizionate dai tempi in cui nacquero. Una religione che nascesse oggi, non si sognerebbe di discriminare le donne. È davvero difficile liberarsi dei condizionamenti: una tradizione non può farlo.
L'unica vera spiritualità è quella che insegna agli uomini a rendersi conto e a sbarazzarsi dei propri condizionamenti.

lunedì 1 aprile 2013

Speranze e illusioni


"Se strappi all'uomo comune le illusioni, con lo stesso colpo gli strappi anche la felicità" diceva Henrik Hibsen. In effetti le illusioni sono i desideri che ciascuno di noi pensa di realizzare: la felicità, l'amore, la salute, la ricchezza, la fama, una vita tranquilla, l'immortalità dopo la morte e così via. Viviamo per raggiungere questi obiettivi, che in un certo senso ci riscaldano il cuore. Anche se a poco a poco molte di queste speranze si infrangono (siamo infelici, veniamo abbandonati da chi amiamo, ci ammaliamo, perdiamo persone care, non ci arricchiamo, ecc.), le illusioni non cessano fino all'ultimo momento… Potremmo sempre risvegliarci dopo la morte in un altro mondo, dove saremo amati incondizionatamente, dove non dovremo faticare per vivere, dove tutti ci saranno amici, ecc.
Le illusioni non ci abbandonano mai; sono la meta che non smettiamo mai di inseguire, ci danno un senso nella vita, ci fanno sperare che un giorno le cose cambieranno. È difficile definire la differenza tra illusione e speranza: l'illusione è una speranza che non si realizza mai. Ma come saperlo in anticipo? Chi mi impedisce di arricchirmi di colpo, di trovare il vero amore o di guarire da una grave malattia? In questo mondo succede di tutto. Quando la speranza ci abbandona davvero, quando capiamo che non ce la faremo mai, quando ci rendiamo conto che non guariremo mai, che siamo condannati a vivere sempre nel grigiore e nell'indigenza, allora subiamo un trauma – e qualcuno può suicidarsi. Fine della speranza? Non proprio: si spera comunque che la sofferenza cessi.
Ci sono religioni, però, che ci dicono che bisogna liberarsi di queste illusioni, anzi che sono proprio queste illusioni, questi desideri che alimentano – attraverso il meccanismo della delusione – la nostra sofferenza. In Oriente, dove si crede alla reincarnazione, si dice addirittura che la sofferenza non cessa neppure con la morte, perché prima o poi seguirà una nuova vita dove dovremo fare i conti con ciò che abbiamo fatto nella precedente. Ma anche nelle altre religioni, dove non si crede alla reincarnazione, si crede comunque a paradisi, inferni e purgatori, che sono pur sempre la stessa cosa. L'unica vera fine della sofferenza – ci dice il buddhismo – sarebbe l'estinzione totale. E, da un punto di vista logico, non si può dargli torto. Finché esiste un ego cosciente, esisteranno illusioni e sofferenze, esisteranno desideri e sconfitte – nonché i loro contrari.
Noi uomini sappiamo, consapevolmente o inconsciamente, tutte queste cose. Sappiamo che la vita sarà dura, sappiamo che dovremo soffrire. Ma non arriviamo a conclusioni definitive, come si fa in Oriente. Pensiamo che alla fine si faranno i conti, e speriamo (o ci illudiamo) che le cose positive saranno superiori a quelle negative – e tanto ci basta.
Ma che cosa succederà se il bilancio sarà in rosso? Nell'ultimo momento sapremo. Già… ma non saremo più in grado di rimediare. Questo ragionamento ci suggerisce di farci un'opinione finché siamo in tempo. Non si tratta solo di esaminare quello che hanno detto gli altri uomini - pensatori, filosofi, religiosi, ecc. -, ma anche di raggiungere dentro di noi, per quanto possibile, una chiarezza mentale in cui le cose appaiono per quelle che sono e non per quello che vorremmo. Diceva Seneca: “Sarai tu stesso a procurarti motivi di affanno, ora affidandoti alla speranza, ora abbandonandoti alla disperazione? Se sei saggio unisci una cosa all'altra: non sperare senza disperazione e non disperare senza speranza”.

Feste pasquali


Non so se siete riusciti a sfuggire alle innumerevoli cerimonie pasquali che quest'anno sono state ancora più asfissianti data l'elezione di un nuovo papa, ben deciso a stare sulla scena da mane a sera. Non so se siete riusciti a sfuggire agli innumerevoli programmi "religiosi" che hanno affollato radio e televisione: ce n'era per tutti, a tutte le ore e di tutti i generi. Non solo le immancabili vite di Gesù, dei santi e dei Papa, ma anche programmi sui giardini del Vaticano, sui tesori del Vaticano, sulle opere d'arte del Vaticano, sulla storia della Chiesa, e poi trasmissioni sulla Via Crucis, sull'Angelus, sulle preghiere, sulle visite e sulle parole del Papa. Questa è la religione per gli italiani: cerimonie, riti, messe, processioni e così via. Tutte cose esteriori. Tutte cose che lasciano il tempo che trovano. Sì, perché tra messaggio evangelico e comportamento degli italiani non c'è proprio niente in comune. Un cattolico dovrebbe "imitare" Gesù, dovrebbe applicare la sua dottrina, dovrebbe amare il prossimo e pensare non al proprio interesse personale ma al bene comune. Ma tutto si riduce alla partecipazione a questi rituali formali, che vanno avanti da secoli e che non hanno mai prodotto una grande etica.
Pochi notano l'inconciliabilità tra la vita del povero Gesù e le ricchezze di questi Papi, che parlano sì di povertà, ma che sono gli uomini più ricchi del mondo, e che non pagano neppure le tasse sulle attività commerciali. Chi ha simili palazzi e tante opere d'arte? Nemmeno gli sceicchi del Qatar. Chi ha tante proprietà in Italia? Nemmeno Berlusconi.
E come sono state accumulate tante ricchezze, tanti ori e tanti argenti? Non certo con le elemosine, ma vendendo i propri "servizi" ai ricchi, che sono sempre stati disposti a pagare per avere un buon posto in Paradiso (nessuno è mai tornato a dirci che è stato fregato), oppure con la presenza assidua dei preti là dove c'era una ricca vedova o qualche ricco senza eredi. Si sa che la pratica più efficace per avere una raccomandazione nell'aldilà è sempre stata quella di lasciare il proprio patrimonio in eredità alla Chiesa. E gli italiani di raccomandazioni se ne intendono.
Radio e televisioni, in Italia, hanno fatto a gara per appiattirsi sui programmi "religiosi", contribuendo a diffondere l'idolatria papale, che è la vera religione italica. Quanto è grande, quanto è originale, quanto è buono, quanto è nuovo, quanto è francescano,  quanto è alla mano... La piaggeria regna sovrana nei nostri mass media. Tutto questo torna utile ai loro strapagati conduttori che così possono farsi belle vacanze all'estero o nelle loro lussuose ville, in barba alla crisi generale. Quelli che non sono strapagati - e magari neanche pagati - sono costretti a sorbirsi questi noiosi spettacoli televisivi e radiofonici, sperando che passi presto la festa.