Perché invitare la gente ad amare, come ha fatto Gesù? Perché evidentemente gli esseri umani non si amano o si amano troppo poco, magari troppo limitatamente, ai coniugi, ai parenti, agli amici...ma non oltre.
Il problema è questo. Non c' è amore perché tutti si considerano esseri isolati, chiusi, separati. Ma come mai gli uomini si considerano così? Perché non riflettono sul fatto che sono nati dall' unione di altri esseri - e in realtà da tantissimi altri, da una catena o da una rete infinita. Perché anche il cibo, i vestiti e tutti gli oggetti che ci circondano provengono dalla connessione generale.
Ma, per farsi un sé, gli esseri devono staccarsi dai genitori e diventare autonomi. Ecco il punto. In questo distacco si deve formare l' individuo, separato, isolato.
Però c'è modo e modo di farlo. Si può farlo sentendo gli altri come nemici. E difendere il proprio fortilizio. O si può farlo sentendo gli altri come tanti esseri connessi.
In Oriente si dice che le anime si sono sempre reincarnate, e quindi siamo tutti parenti.
Se siamo tutti imparentati, vuol dire che non ci sarebbe necessità di invitare all' amore universale. Si può non amare la propria madre, il proprio padre, il proprio fratello?
Purtroppo sì , si giunge anche a questo, disconoscendo la connessione fondamentale tra tutti.
Forse siamo stati poco amati, male amati. Ma il risultato è che si interrompe il legame e si disconosce la connessione. E, dopo, bisogna spingere la gente ad amare.
Ma si può amare con la volontà?
No, con lo sforzo non si potrà mai amare. Bisogna essere consapevoli dell' interconnessione! Che veniamo da un' interconnessione!
Nessuno uomo è un' isola. Ma può sentirsi isolato. Oh, sì. Ed è la rovina .
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Chatgpt: Questo testo tocca un nodo profondissimo dell’esperienza umana: la tensione tra individualità e appartenenza, tra separazione e connessione. Hai descritto con grande lucidità un paradosso centrale: siamo esseri relazionali per natura e per origine, ma spesso ci viviamo come isole, separati, in lotta o in difesa.
Gesù invita ad amare non come un comandamento esterno, ma come un richiamo a qualcosa che, in fondo, ci appartiene già — la nostra natura più autentica, che è relazionale. Ma come dici bene, non basta lo sforzo o la volontà per amare. L’amore nasce da una consapevolezza: quella di essere parte di qualcosa di più grande, di essere intrecciati, connessi, fratelli nel senso più profondo. E questa consapevolezza spesso manca o si perde, forse perché si è stati, come scrivi, “poco amati, male amati”.
Il passaggio fondamentale, allora, non è “sforzarsi di amare”, ma riscoprire l’interconnessione. Da lì nasce l’amore spontaneo, quello che non ha bisogno di ordini né di moralismi, ma che sgorga naturalmente quando si riconosce l’altro come parte di sé.
Ti va di approfondire questo discorso? Magari guardando come si può coltivare quella consapevolezza di interconnessione anche nella vita quotidiana.
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Come si fa a coltivare questa consapevolezza di interconnessione?
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Bella domanda, essenziale. Come si fa a coltivare nella vita quotidiana la consapevolezza dell’interconnessione? Come si fa a passare da una visione individualistica e difensiva della vita a una visione relazionale, profonda, aperta?
Ecco qualche spunto, molto concreto ma con radici profonde:
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**1. Osservare con occhi nuovi
Tutto parte dallo sguardo. Guardare il pane che mangi e pensare a quante mani ci sono dietro: chi ha seminato, chi ha raccolto, chi ha impastato, chi ha cotto. Ogni oggetto che usiamo è il risultato del lavoro e dell’ingegno di tanti. Anche solo questo piccolo atto quotidiano può ridestare la consapevolezza che non esistiamo da soli.
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2. Praticare la gratitudine (ma davvero)
Non come un esercizio di buonismo, ma come un riconoscimento onesto di quanto riceviamo. Ringraziare non solo con le parole, ma anche mentalmente, chi ci ha toccato la vita in qualche modo, anche con un semplice sorriso. La gratitudine apre la porta alla connessione.
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3. Ascoltare, davvero
Spesso ascoltiamo solo per rispondere. Ma ascoltare l’altro per capirlo — senza giudizio — è uno degli atti più profondi di riconnessione. Quando ascolti, ti ricordi che l’altro esiste, ha una storia, soffre, gioisce, come te.
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4. Passare dalla competizione alla cooperazione
Ogni volta che scegliamo di aiutare invece che primeggiare, che offriamo invece di trattenere, stiamo rafforzando quella rete invisibile che ci unisce. Non è debolezza, è lucidità spirituale.
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5. Meditare o contemplare il senso dell’unità
Anche solo per pochi minuti al giorno, sedersi in silenzio e sentire il respiro, immaginare di essere parte del tutto — della natura, dell’umanità, della vita. È un atto potente, che ci radica nel presente e ci apre all’interconnessione.
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6. Riconoscere la ferita della separazione
A volte ci sentiamo isolati perché portiamo ferite dentro: abbandoni, rifiuti, mancanze. Non si tratta di negarle, ma di riconoscerle. Solo da lì può partire una guarigione, e quindi una nuova apertura all’altro.
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