lunedì 19 maggio 2025

L'aura di-mostrata

 




Meridiani, chakra e altre forme di energia vitale sono appannaggio del pensiero mistico, e non della scienza. Qualcuno ha sempre detto però  che esiste la possibilità di vedere l'aura intorno ai corpi viventi, di diversi colori e bagliori. 

Ora esiste qualcosa di simile che si può misurare in laboratorio: un’aura che emettono costantemente tutte le creature viventi, definita ultraweak photon emission, o emissione fotonica ultra-debole. Si tratta di un tenue bagliore prodotto dai biofotoni rilasciati dai processi metabolici che avvengono all’interno delle cellule. Talmente debole, che per decenni è stata oggetto di forte scetticismo da parte della stessa comunità scientifica. Oggi, un nuovo studio dell’università di Calgary mette però la parola fine alla vicenda, mostrando come appare in tempo reale l’emissione fotonica ultra-debole proveniente dall’intero corpo di un topo, e i cambiamenti a cui è soggetta con il sopraggiungere della morte. I loro risultati sono stati pubblicati di recente sul Journal of Physical Chemistry Letters.


Un’ipotesi che viene da lontano

Dagli albori della biologia moderna si ritiene che la comunicazione tra cellule e i loro organelli avvenga tramite segnali chimici. Negli anni ‘20 del secolo scorso, però, il biologo sovietico Aleksandr Gavrilovič Gurvič decise di esplorare un’altra possibilità: che esistesse, cioè, una forma di comunicazione cellulare a distanza con cui le cellule possono trasmettere informazioni tra loro entrare in contatto e senza utilizzare mediatori chimici. In una serie di esperimenti svolti utilizzando cipolle, osservò che le radici di queste piante possono influenzare il tasso di replicazione cellulare di un’altra radice di cipolla quando si trovano a brevissima distanza tra loro, separate unicamente da un sottile strato di quarzo. Lo stesso non avviene se il separatore è una sostanza opaca.


Per questo, si convinse di aver dimostrato che esiste una forma di radiazione che permette la comunicazione tra cellule. La battezzò radiazione mitogenica, e vi costruì sopra una teoria che si dedicò a difendere per i due decenni seguenti dalle critiche di una buona parte della comunità scientifica. I tentativi di replicazione dei suoi esperimenti non andarono mai a buon fine. Ma l’ipotesi che esista una forma di radiazione biologica, legata all’emissione di quelli che in seguito verranno ribattezzati “biofotoni” continuò a sopravvivere sottotraccia nel lavoro di diversi gruppi di ricerca, tra cui quello della figlia Anna Gurvič. Fino a quando la loro esistenza non venne confermata prima in Russia, negli anni ‘60, e poi anche nel mondo accademico occidentale, negli anni ‘70, grazie ai progressi nella sensibilità degli strumenti di analisi.



Se questi biofotoni – o, come preferiscono definirli oggi gli scienziati, queste emissioni fotoniche ultra-deboli – abbiano o meno un ruolo biologico è ancora tutto da dimostrare. E anzi, in molti ritengono che siano troppo deboli perché le cellule possano distinguerle dalle radiazioni termiche emesse da qualunque corpo con una temperatura superiore allo zero assoluto. I dubbi sulla loro esistenza però sono sempre meno.


Dove nascono i biofotoni?

Sull’origine di queste radiazioni biologiche non ci sono certezze. Si ritiene però che siano il frutto di processi metabolici delle cellule, in particolare quelli che coinvolgono le specie reattive dell’ossigeno (i famosi radicali liberi). E che avvengano principalmente nei mitocondri, e in simili macchinari molecolari responsabili della produzione di energia. Dalle misurazioni effettuate, parliamo dell’emissione di appena qualche fotone al secondo per ogni centimetro quadrato della nostra pelle. Troppo poco per essere visibile non solo ad occhio nudo, ma anche con rilevatori che non siano praticamente lo stato dell’arte.


Nella loro ricerca, i ricercatori canadesi guidati dal fisico Daniel Oblak hanno utilizzato telecamere digitali con una risoluzione che raggiunge il singolo fotone per scattare delle immagini con un’esposizione di oltre due ore di quattro topi glabri, una prima, e una dopo, la loro morte. 


Uno strumento di monitoraggio

In un altro esperimento hanno utilizzato invece alcune foglie di schefflera (heptapleurum arboricola) su cui avevano praticato delle incisioni, dimostrando che i processi cellulari necessari per la riparazione dei tessuti biologici incrementano le emissioni di biofotoni. Al pari di alcuni farmaci testati sulla superficie delle foglie danneggiate, come l’anestetico benzocaina.


“Il fatto che le emissioni fotoniche ultra-deboli siano realtà è innegabile a questo punto”, ha affermato Oblack intervistato dal New Scientist. “Questo dimostra che non si tratta solamente di imperfezioni e che non sono causate da altri processi biologici. È realmente qualcosa che viene emesso da tutti gli esseri viventi”.


Secondo gli autori dello studio, l’aura di biofotoni smette di esistere in seguito alla morte perché viene meno la circolazione sanguigna, che trasporta il sangue ricco di ossigeno necessario per mantenere in funzione i processi metabolici delle cellule. E per questo, le emissioni fotoniche ultra-deboli potrebbero rivelarsi in futuro un ottimo strumento di monitoraggio, con cui verificare ad esempio l’attività dei tessuti del nostro organismo senza bisogno di test invasivi, o osservare lo stato di salute delle foreste dall’alto, durante la notte.

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